Abdallah, fattorino di giorno, taxista di notte, sogna un visto per gli Stati Uniti: e allora si inventa mille lavori e non dorme mai. Non rinuncia alla sua dignità. E il traffico surreale della capitale libanese è il suo terreno di gioco. Una corsa dall’aeroporto al centro per un euro e mezzo.

Testo di Stefania Errico

Abdallah ha trentatré anni. Una laurea in Lingua e Letteratura Araba alla Lebanese University. L’abilitazione per insegnare nelle scuole. Un’importante esperienza lavorativa all’interno della Lebanese Swiss Bank.
Eppure, lo incontro in circostanze diverse, che nulla hanno a che vedere con i suoi titoli di studio: appena arrivata all’aeroporto di Beirut avevo bisogno di un moto-taxi per raggiungere il centro della capitale libanese.

Dal finestrino dell’aereo la città si fa sempre più vicina, si vedono poche luci fioche sempre più nitide. Atterraggio. Un’ora di fila alla frontiera per il controllo del passaporto ed ottenere il visto. Domande sui motivi del viaggio, sull’alloggio, sul biglietto di ritorno. Un timbro dall’inchiostro colante su una pagina casuale del documento, e sono libera di uscire.
Si aprono le porte scorrevoli che separano quell’ambiente internazionale, terra di nessuno, dalla realtà locale.

“Taxi, madame?”, “Taxi?”, “Wein rāih?” (dove sei diretta?). Tra la sensazione di smarrimento, scombussolamento ed indecisione per tutte quelle voci squillanti ed insistenti che in arabo chiedono di accompagnarti a casa per settecento mila lire (sette euro), trovo un ragazzo in moto che offre lo stesso servizio per 150mila lire (un euro e cinquanta). Monto in sella. Capelli al vento, sfrecciamo tra le macchine, in sottofondo una melodia di clacson, un forte odore di acetone proveniente dalle marmitte, lampioni e semafori spenti per la crisi energetica, buio.


La regola della strada in Libano è che non ci sono regole: se nel nostro senso di marcia c’è troppo traffico facciamo zig-zag sfiorando con le ginocchia le portiere delle macchine, andando contromano, incrociando altri scooter con quattro persone a bordo che, come noi, cercano il modo più veloce per uscire dall’ingorgo.


Abdallah non guarda la strada, si gira sempre per parlarmi, vuole il contatto visivo. Nel frattempo, con la mano tiene il telefono per usare il navigatore. Mi racconta di come abbia iniziato ad offrire questo servizio per sopravvivere alla crisi economica. Mi spiega che durante la mattina consegna la spesa a domicilio per un supermercato, che di pomeriggio fa il fattorino per un ristorante, e la sera fa il tassista, dormendo massimo quattro ore ogni notte. Con i soldi che guadagna non riesce a pagare un pieno di benzina, ma questo non gli fa perdere il sorriso e la speranza. La speranza di riuscire ad emigrare.


Richiedere il visto per lasciare lo Stato costa seicento dollari americani, un investimento azzardato considerando che la domanda può essere respinta dalle autorità, anche con tutti i requisiti richiesti. Ma questo è il suo sogno, e allora dorme poco e fa grandi sacrifici, in nome della “karāma” (dignità), da lui più volte pronunciata.


Arriviamo a destinazione, ancora adrenalinica per l’esperienza del giro in moto, faccio per pagare ma lui insiste per offrire il giro. Mi chiede se può inviarmi su WhatsApp il suo curriculum, nel caso in cui in Italia ci fossero opportunità lavorative, di ogni tipo.
Riparte, sfrecciando tra le viuzze di Furn El Chebbak, suonando il clacson a tutti i pedoni in cerca di nuovi clienti da far salire al volo dietro di lui.