Beirut cerca di vivere e sopravvivere. Non si fa illusioni e guarda a quanto accade alla sua frontiera meridionale. Dove Hezbollah e Israele si fronteggiano. La città vive la sua illusione di normalità, senza soldi e con sfrontatezza. La nuova divisione è fra ricchi e poveri.
Testo e foto di Isabella Balena
I segni dei quindici anni della guerra civile non ci sono quasi più. Qualche edificio ancora ferito qui e là, ma la ricostruzione ha avuto la meglio. Attraversando la città, potresti non accorgerti che Beirut ha avuto una storia di guerre e massacri a partire dagli anni ’70 e ’80, poi nel 2006, per arrivare ad oggi.
Non è più la città lussuosa e splendente, la Svizzera del Medio Oriente, anche se i locali e i moderni condomini lungo la Corniche e nella Downtown ancora ospitano giovani ragazze truccatissime e uomini in giacca e cravatta. Le banche esistono ancora, ma chiuse e ben serrate, piene di tutti i risparmi dei libanesi.
Di certo la città è divisa in due. Non più tra est e ovest, il fronte all’interno della città dove si sparavano tra palestinesi e falangisti, ma, oggi, la divisione è tra ricchi e poveri.
Dalla crisi del 2019 i libanesi non hanno più avuto accesso ai loro soldi. Nonostante le imponenti proteste di piazza, son stati lasciati a secco. Poi è seguito il covid e, come se non bastasse, l’esplosione del porto ha azzerato anche i più piccoli segni di fiducia. I cittadine non hanno ricevuto un centesimo nonostante la devastazione. I segni della protesta ancora si leggono sui muri e sui monumenti innalzati presso il porto e sulle pareti delle banche.
L’impressione è che la città sia lasciata a se stessa, al buon senso dei suoi cittadini. Non funzionano i semafori, fiumi di auto invadono ogni centimetro di strade e marciapiedi, le attività sono in crisi, non si vedono in giro vigili urbani né netturbini perché non ricevono i salari, mezzi pubblici praticamente assenti.
All’impoverimento di una larga parte della società, soprattutto quella degli statali e della classe media che si è vista quasi azzerare gli stipendi e impossibilitata ad accedere ai propri risparmi, si aggiunge la povertà del quasi un milione e mezzo di rifugiati siriani.
Quattro milioni sono circa i Libanesi nel Paese, altri dodici sono sparsi nel mondo. Se il Libano riesce ancora a stare in piedi è proprio grazie alle rimesse degli emigrati.
E’ un paese di stratificazioni, da quelle archeologiche fenicie, romane, bizantine, islamiche a quelle religiose, cristiane, armene, mussulmane in tutte le sfumature, tutte rappresentate nella complessa compagine parlamentare. I conflitti si sono succeduti nei decenni, fino a quest’ultima “nuova” crisi cominciata a Gaza il 7 ottobre 2023.
Se il Governo libanese pare in una impasse della quale non sa liberarsi, chi invece ha le idee piuttosto chiare è il partito di Dio, Hezbollah. Il controllo del Sud del paese è suo, la milizia sa come e quando agire. Proprio nel Sud si avverte, oltre al ronzio dei droni israeliani, una sorta di sospensione, una quiete prima della tempesta. Si scruta l’orizzonte, dalle colline del Golan occupate da Israele nel ’67 (e arbitrariamente annesse nell’81), ci si spinge con lo sguardo più a Ovest, fino al mare. Israele è lì a pochi chilometri. Il paesaggio è lo stesso, i villaggi anche. Gli ultimi sette sono in Libano, l’ottavo è già in Israele, Kiriat Shmona. In ebraico, l’ottavo villaggio, appunto.
Ogni tanto un’esplosione alza una nuvola di fumo. Il conflitto crescerà? Ognuno ha le sue previsioni, ma intanto alcuni villaggi sul confine son stati evacuati e gli sfollati riempiono, un po’ più a Nord, scuole ed alberghi, grazie soprattutto alla generosità dei privati. Hasan Hamdan, proprietario del Kalaa Resort a Nabatieh, ospita diciassette famiglie mentre ad Arnoun nelle case vuote degli emigrati ve ne sono circa quaranta. A Tiro gli sfollati sono ospitati in due scuole.
Le proposte internazionali sono unilaterali: pretendono che queste milizie si spostino dal confine per diversi chilometri, mentre non viene richiesta la stessa cosa ad Israele. Ma da qui finché non c’è un cessate il fuoco a Gaza nessuno si muove. E come afferma Nabih Berri, presidente del Parlamento, con una battuta “è più facile spostare il fiume Litani (che fa da confine), che Hezbollah”.
Tornando a Beirut, passiamo per il campo palestinese di Chatila. Qui le televisioni accese nelle case strette le une alle altre rimandano le immagini dei morti di Gaza. Nessuno vuole un’altra guerra, ma se il massacro nella Striscia non si fermerà, la resistenza palestinese non avrà molta scelta. E la risposta ad Israele da queste parti, come in tutto il Libano, è delegata ad Hezbollah.