Testo e foto di Sandro Abruzzese
Sarajevo vuol dire Serraglio, ho letto da qualche parte. In effetti se ne sta lì, stretta tra le montagne, anzi le sue case si inerpicano su per balze e declivi, mentre le acque del Miljacka, il fiume che la attraversa, scorrono verso la pianura. Quindi assume mille volti Sarajevo: è asburgica, alpina, turca, mediterranea, europea, asiatica; e sarebbe banale dire che è l’incontro tra Oriente e Occidente.
In Italia, fin da bambini, quando si parla di lei è per dire di Gavrilo Princip, dell’assassinio di Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austroungarico. Per questo vado in quella strada, da buon pedante ripercorro la storia. E innanzitutto nei libri di storia andrebbe detto che non si capisce mica quanto diavolo è bella Sarajevo. Basterebbe qualche aggettivo in più, ecco tutto. E comunque una volta arrivato a due passi dal luogo, vengo rapito da alcune bambine che riposano su una panchina, e che nulla sanno della storia. Se ne stanno lì, in questa luce primaverile che va e che viene, ai loro piedi i monopattini, al guinzaglio un mezzo lupo striato con la lingua all’infuori e sul fianco un piccolo bambino sfinito e assopito.
Alla vista delle bambine mi prende un’accesa indifferenza per tutto ciò che è stato. Quindi, per conseguenza infilo una salita, salgo col rinnovato proposito di scorgere la città dall’alto. Sulla sommità della collina la vista è molto bella. Doveva essere un parco. Come tutti i parchi cittadini, invece, è diventato un cimitero. Sono tutti mussulmani morti nel ’97. In lontananza il monte Igman. Ha una vetta alta. È pieno di boschi, ed era una delle vie impervie e tortuose per cercare di fuggire dalla trappola dell’assedio. Ci si sciava ai tempi dei giochi olimpici dell’84. Altri tempi, c’era il Muro, la Germania divisa, c’era la Jugoslavia, l’Urss. C’erano i parchi, e non c’erano i cimiteri nei parchi.
Di fronte svetta l’antenna avveniristica, il network della TV. Ovviamente furono le prime postazioni occupate dagli assedianti. Di nuovo sono finito nella storia. Sembra inevitabile. Punto lo sguardo verso i minareti e la Biblioteca nazionale. Le nuvole hanno ricoperto il cielo. Mi ricordo il rogo, è fisso nella mente anche per via di quella struggente canzone che è Cupe vampe dei C.S.I.La canticchio: Di colpo si fa sera / si incunea crudo il freddo / la città trema / livida trema. Non ricordo tutte le parole. Si alzano i roghi in cupe vampe / . La chitarra distorta, dissonante, si incrocia con un violoncello dal suono prima caldo e poi acuto e stridente. La lingua di Ferretti è precisa, pulita, il tono ieratico, sì, inconfondibile. Eccola la biblioteca di Sarajevo, l’hanno ricostruita, è messa a nuovo. Direi che non c’è che dire.
Sceso giù per la dorsale, ritornato sul ponte davanti alla biblioteca. Ha fatto in tempo a piovere. L’asfalto bagnato, l’aria sferzata e inumidita. Da quando ho lasciato la collina c’è un dato che non torna, non faccio che pensare ai morti: perché se gli accordi di Dayton risalgono al 1995 portano la data del 1997 ? Ecco che finisco per parlare di nuovo di storia. Poi un tram giallo. Anche questo tram giallo è Sarajevo, mi dico, anche la gente che c’è dentro. Sarajevo è oggi, non è solo il suo passato o una somma di avvenimenti luttuosi. È una città moderna, viva, in cui a dispetto degli stipendi (poche centinaia di euro), vi è una discreta qualità dei servizi, turismo, gentilezza. In cui il sabato sera i club sono pieni di giovani. Certo l’intera Bosnia-Herzegovina ha enormi problemi da affrontare.
Una volta a casa riguardo la foto del tram. Dentro ci sono due ragazzi, una donna col velo, una bambina dallo sguardo assorto e dal giubbetto a pois, con gli occhi e i capelli nerissimi. Scrivo un messaggio alla giornalista Azra Nuhefendić per chiederle se sa qualcosa dei morti del ’97, mi risponde così:
nessun mistero, dopo la “nostra” guerra la gente moriva di più per lo stress, e le malattie che si erano “svegliate” dopo 4 anni . Durante la guerra anche le malattie gravi si erano fermate, e dopo, quando pensi che tutto è passato, ritornano e ti colpiscono. Ne ho tanti di amici, e familiari, purtroppo. In BiH c’erano tanti casi, subito dopo la guerra, di cancro insoliti per i giovani, là ancora oggi si muore giovani. Una volta eravamo una nazione giovane, durante e dopo la guerra le cose sono cambiate, un po’ per i cento mila morti della guerra, un po’ perche tutti quelli che potevano se ne sono andati via, oggi la BiH è un paese di vecchi genitori e di giovani che vogliono scappare. C’è il 60 percento di disoccupazione, gli invalidi, le donne stuprate, le vedove, gli orfani, tutto questo contribuisce al risultato finale: in BiH il cancro e l’infarto sono diffusi come l’influenza.
La risposta di Azra mi fa sentire ingenuo e ridicolo. Già, che senso avrebbe parlare del dolore degli altri? Il dolore rimane nei corpi a distanza di anni, fa il suo corso. Sarebbe un inutile riflesso, parlarne. Non è la mia città, Sarajevo, non è il mio dolore. Non hanno sparato alla mia famiglia. Non hanno distrutto la mia casa. Tra l’altro ho letto Andrić e non mi è servito, allora ho letto Jergović e neanche lui mi è servito. Il dolore di Sarajevo non è il mio e non lo sarà mai. Ci sono cose che non si immaginano neppure. Questa è una di quelle. Magari occorre accettare l’assunto del poeta Handke: è solo un mondo, il nostro, “Un disinvolto mondo di criminali”, così recita il titolo di uno dei suoi taccuini jugoslavi. Un mondo, per dirla con Rumiz, in cui il bene è imbecille e il male furbo, scaltro, capace. Ecco tutto.
Intanto oltrepasso il quartiere delle botteghe musulmane, vado verso la parte asburgica. Involontariamente sono arrivato fin davanti alla “Fiamma eterna”, c’è un ragazzo con la maglietta dei Rolling stones, i capelli lunghi, la giacca di pelle. Prima ancora due donne giovani, belle, biondissime, per la verità un po’ troppo truccate, mi chiedono se ho voglia di un massaggio.
Alla fine del viale, sulla destra un altro parco divenuto cimitero, sulla sinistra un enorme centro commerciale. Torno alla “Fiamma eterna”, che ricorda il sacrificio della resistenza jugoslava, le vittime della Seconda guerra mondiale. Ora che ricordo è la strada dove il reporter Mario Boccia fotografò l’indimenticabile “Ragazza che corre”, quel trenta settembre del 1993. Nella foto in bianco e nero si vede la ragazza che corre con una strana e indecifrabile smorfia di consuetudine e paura sul volto. Rivedo gli stivali alti al ginocchio, nella mano destra un sacchetto.
Ecco. Sono finito di nuovo, lo so, a parlare di storia e di guerra. Il fatto è che Sarajevo non è solo quello. Sarajevo, per fortuna, è anche adesso.