Testo e foto di Luciano Pieri.
Il cielo di Phnom Penh, capitale della Cambogia, è magnifico, grande e luminoso.
Un tempo Phnom Penh era considerata la più bella delle città francesi dell’Indocina, ma io ritengo che lo sia ancor oggi, in un’epoca dove la poesia di tanti luoghi è svanita per sempre.
A parte i monumenti elencati nelle guide fra “le cose da vedere”, il suo fascino particolare è dato dagli innumerevoli mercatini, dall’architettura coloniale che sopravvive alla lontana dominazione francese e dai tre fiumi che qui confluiscono: il Mekong, il Bassac ed il Tonle. Quest’ultimo in particolare, dopo che trent’anni fa venne occupato dai vietnamiti venuti in Cambogia per spezzare la feroce dittatura dei khmer rossi, è stato trasformato in una animata città fatta di pittoresche case di legno costruite su alte palafitte.
Risalendo verso nord questo fiume si giunge dentro il Tonle Sap, un grande lago animato da una numerosa comunità la cui vita si svolge completamente sull’acqua: le case, i negozietti, i laboratori, addirittura il distributore di benzina, tutto è galleggiante e la gente si muove su piccole imbarcazioni per espletare le incombenze quotidiane.
Anche prima dell’anno mille a.c., come dimostrano i ritrovamenti archeologici, i cambogiani vivevano in case su palafitte mangiando prevalentemente, come oggi, riso e pesce. Ma la storia di questo popolo è molto più antica, tracce di cavernicoli che lasciarono vasi di terracotta nel nord ovest della Cambogia, ci riportano al 4200 a.c. anche se da parte degli studiosi non c’è certezza di una relazione diretta con i khmer contemporanei.
Le certezze sulla sua storia arrivano dal I° al IX° secolo d.c. quando la Cambogia fu un insieme di piccoli stati che subirono influenze cultural-religiose sia dall’India sia dalla Cina, dando a tutta questa zona, comprendente anche Vietnam e Laos, il nome di Indocina. In una iscrizione trovata nel sito di Kulen si legge che il re Jayavarman II°, nell’802, prese qui parte ad una cerimonia durante la quale venne proclamato sovrano universale dando inizio ad una dinastia che circa 300 anni dopo portò alla costruzione di quella meraviglia dell’umanità che sono i siti khmer della piana di Angkor.
Angkor è così bella, così grandiosa, così unica, che non c’è fotografia o filmato che possa prepararci al suo incontro. Quando si arriva qui la prima cosa che uno si domanda è: a che serviva tutto questo?, la risposta è forse questa ”per umanizzare l’idea del divino”, perchè nessuno di questi templi o palazzi o monumenti fu costruito per l’uomo o meglio per una casta reale.
I re e i potenti non abitarono mai queste costruzioni ma vissero ai margini della parte considerata sacra in case di legno e paglia di cui non resta traccia. Tutte queste pietre, che testimoniano la grandezza e l’opulenza della civiltà angkoriana durata cinque secoli, erano l’involucro umano della divinità che rendeva stabile il potere dei suoi re.
Quando nella metà dell’ottocento i francesi riscoprirono la piana di Angkor, trovarono, immersi nella foresta, decine di siti letteralmente inghiottiti dalla vegetazione tropicale; dico “riscoprirono” perché da mille anni il sito è stato custodito da schiavi ereditari, poi nel XVI secolo alcuni viaggiatori portoghesi avevano attraversato la zona definendo Angkor Wat “la città murata” e nel XVII secolo un pellegrino giapponese disegnò una pianta dettagliata dei monumenti incontrati.
Descriverli tutti nello spazio qui disponibile è cosa impossibile, prenderò quindi i quattro che ritengo più significativi, dandone descrizioni sommarie. Angkor Wat è un tempio montagna, una piramide ottenuta con la sovrapposizione di treterrazze, e senza dubbio il più vasto ed il più spettacolare dei monumenti di Angkor.
Costruito nel dodicesimo secolo è stato considerato da molti studiosi uno dei più straordinari monumenti mondiali mai concepiti. Per dare una idea della sua grandezza basta pensare che il muro perimetrale ha i lati di 1025 metri per 800 metri, il tutto racchiuso da un fossato largo 190 metri.
Gallerie, stanze, cortili, torri si alternano in un gioco sapiente. I bassorilievi sono magnifici, lunghi in totale 800 metri, descrivono epiche battaglie fra il bene ed il male, fra dei e demoni, fra il re Jayavarman VI ed i suoi nemici Cham.
Sempre il momento di gloria è breve ed inevitabilmente seguito dal tramonto, e come nella descrizione della battaglia di Kuruksetra non ci sono vincitori ne vinti, ma l’unica dominatrice è la morte.
Consiglio chi avrà la fortuna di visitare questo sito di non perdere lo spuntare del sole dietro il tempio di Angkor Wat, è indimenticabile.
Secondo come grandezza e successivo come tempo di costruzione è il tempio di Bayon che è inglobato nella città fortificata di Angkor Thom.
Qui, più che in qualsiasi altro tempio di Angkor, prevalgono gli elementi buddisti soprattutto perché le cinquantaquattro torri che lo compongono sono decorate con duecento grandi facce del Bhodisattava Avatikitesvara scolpite direttamente nella pietra. In qualsiasi punto della costruzione uno si trovi, non potrà evitare il suo gelido sorriso ed i suoi occhi un po’ benevoli, un po’ inquisitori.
Dopo un centinaio di anni di continui studi fatti da tanti ricercatori, il Bayon nasconde ancora molti misteri, in particolare la sua simbologia e la sua esatta funzione. Qui ci sono bassorilievi per un totale di 1200 metri comprendenti più di undicimila figure. Oltre le battaglie fra khmer e cham, sono offerti magnifici spaccati di vita quotidiana delle popolazioni di ottocento anni fa che stupiscono per la loro freschezza: venditrici di pesce, giocatori di scacchi, combattimenti di galli, una donna partoriente, il trasporto delle bare dei caduti in battaglia, quadretti di vita quotidiana sul lago Tonlè, diventa quasi un gioco, durante la visita, lo scoprire nuove particolarita’.
Poi, come terzo sito, voglio ricordare il tempio di Ta Prohm. La sua attrattiva è data dall’essere l’unico monumento ad Angkor lasciato avvolto dalla giungla, quindi dà l’idea esatta di quali difficoltà si trovarono ad affrontare i francesi, quando a fine ottocento vollero rendere l’intera piana fruibile agli studiosi e ai visitatori. Qui a Ta Prohm vedere la foresta che con le sue tentacolari ed enormi radici stringe in un abbraccio vigoroso muri e torri sgretolando lentamente tutto, è un’esperienza unica.
Infine il quarto sito: Banteay Srei. Posto a circa trentacinque chilometri a nord est di Angkor Wat, si raggiunge percorrendo una pista di terra rossa che attraversa coltivazioni di piante di cocco e villaggi di contadini. Nel 1999 quando lo visitai, non era ancora sicuro totalmente a causa di incursioni di sbandati khmer rossi.
Superate le difficoltà e giunti in questo luogo, si gode della vista del gioiello della corona dell’arte classica khmer, cosi è considerato unanimamente dagli esperti. Banteay Srei è un tempio induista dedicato a Shiva, costruito alla fine del X secolo, non è molto grande ma ha il pregio, uno dei tanti, di essere conservato meravigliosamente bene. Le statue sporgenti su sfondi di foglie e di fiori anch’essi in rilievo pieno, le decorazioni dei timpani e dei frontoni, tutto qui raggiunge il massimo espressivo.
Le dee, in gres rosa, portano gioielli e vestiti raffinati e sui muri del santuario centrale, Rama, l’eroe del grande poema epico, Ramayana, combatte le sue battaglie. Fra queste rovine si aggirano silenziosamente anziane signore, sono donne vedove che raggiunta la menopausa, vogliono abbandonare le cose della terra; si radono i capelli a zero, vestono una sari colore giallo e vivono qui della carità dei rari turisti.
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