Testo e fotografie di Antonio Danise

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Vila de Porto Inglês. Isola di Maio. Capo Verde.

Una nuova strada sta nascendo. Il villaggio si sposta, si ingrandisce, acquista una fisionomia più consona ad un paese, ad una cittadina come si deve. La strada di terra battuta, che comincia subito dopo le ultime case, in breve subirà una trasformazione importante. Non più polvere, forse nemmeno più galline, asini o capre a pascolare, in cerca di erba o insetti. Non ci sarà più nemmeno il falco, che ha perso il suo nido, ora che la ruspa ha sradicato il grande albero dove aveva edificato la sua dimora. Ha sorvolato a lungo l’area di lavoro, fissando incredulo, preoccupato, il luogo dove sorgeva la sua casa, dove sarebbero nati i suoi pulcini. è rimasto sospeso in aria, immobile, per molto tempo, prima di posarsi, sconsolato, nell’angolo di un edificio, a guardare l’opera di distruzione del terreno che, impietosamente, gli operai stavano portando avanti fin dalle prime ore del mattino. Gli occhi del falco rimasero fissi su quelle rovine, in un punto ben preciso, fin quando ci fu luce. Poi, dopo il tramonto, ogni speranza svanì, ed il piccolo rapace, con un volo confuso, andò alla ricerca di un riparo di fortuna. La notte aveva interrotto la vita, e il giorno successivo niente sarebbe stato più come prima. Non è difficile assistere a scene simili a Capo Verde. Qui il mondo appare in continua evoluzione, tra vecchie case cadenti e strade che si vanno disintegrando per lasciare il posto a qualcosa di più moderno.

In paese, tra gli edifici di recente costruzione, si scorgono ancora pareti di case in rovina, che continuano a rimanere miracolosamente in piedi, muri decrepiti, ormai quasi spogli. Le grosse pietre che ne costituivano l’ossatura non reggono più, a scadenza più o meno regolare si staccano miseramente e rotolano via, finché la forza di gravità o la pendenza del lastricato glielo permettono, fino a quando non incontrano ostacoli: un altro muro, il relitto di una barca abbandonata da tempo, o la carcassa di un auto arrugginita, lasciata al bordo di una strada su quattro montagnole di mattoni, dove prima c’erano le ruote, rifugio per galline o cani randagi nelle ore di caldo avvampante. I pezzi di ricambio non esistono, ed il cimitero delle macchine, o dei camion, è lì dove restano, dove hanno esalato l’ultimo catarroso respiro.

I grossi container, invece, con i quali vengono trasportati dalle altre isole, o più spesso da altri paesi, i materiali da costruzione, una volta svuotati del contenuto, possono acquistare una vita nuova. Ad essi infatti può essere riservata sorte migliore, una fine decisamente più dignitosa. Spesso vengono recuperati e adattati, e opportunamente lavorati diventano sede di un bar e talvolta anche di un piccolo ristorante equipaggiato alla bell’e meglio, dal momento che per cucinare una murena o un piatto di búzio non occorrono grandi attrezzature, ed un bicchiere di grog o di birra si può bere anche in piedi, se proprio non si riesce a ricavare un piccolo cortile nello slargo di una strada, con un semplice arredamento fatto di tavoli e sedie di plastica, fornite dai rivenditori di bibite locali o portoghesi.

C’è una ragazza dentro uno di quei container, è là da pochi mesi e lavora fino a tardi la sera. Prepara da mangiare cose semplici, e c’è sempre un menù scritto a caratteri stentati su una lavagnetta che si regge a fatica, in una lingua che ha un che di improvvisato. È il modo in cui ha provato a tradurre le parole che ha sempre pronunciato, sempre ascoltato, ma che non sa come trascrivere, ed allora si sbilancia, abbozza con caratteri incerti qualcosa che può indicare un piatto, o il dolce che ha appena finito di sfornare. L’importante è che i clienti capiscano e che ciò che propone sia buono, appetitoso, perché è quello che la gente richiede.

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Ormai si è creata un giro di affezionati che passano a trovarla almeno una volta al giorno, per un rapido saluto, o per uno spuntino, o anche solo per una chiacchierata, sorseggiando un bicchiere di Strela ghiacciata, intanto che aspettano che le murene escano fragranti e profumate dall’olio bollente, insaporite dal piccante appena percepito, la giusta misura che fa esaltare il gusto, che rende tutto più appetitoso. Che mondo sarebbe senza il piri-piri? Sì, la strada fra poco nascerà, una dove finalmente non ci sarà polvere. O meglio, ce ne sarà di meno, perché è difficile eliminarla del tutto.

La strada è fatta di cubetti di roccia, tagliati a mano con lo scalpello. C’è un uomo che da anni aspetta questo momento, il suo lavoro consiste nell’andare in giro e raccogliere le pietre più grosse, le carica su una carriola sgangherata e le porta all’ombra di un’acacia. Quando ne ha accumulato una quantità sufficiente per un muretto, o per un tratto di strada, passa alla seconda fase della lavorazione, che consiste nel ridurre le pietre in pezzi più piccoli, più o meno omogenei, a seconda della destinazione.

Lo chiamano Rocha, che in portoghese significa roccia, ma anche pietra, e fa il pedrero, cioè uno che lavora le pietre, e con le pietre, ma che significa anche muratore. Il suo nome è ben evidenziato con enormi caratteri irregolari su entrambi i fianchi della carriola, perché a Maio ognuno sappia che quel mezzo di trasporto è suo, che a nessuno venga in mente di portarlo via.

Rocha vive facendo commercio di pietre. Anche questo è un lavoro, il suo lavoro, e adesso che stanno cominciando le opere per lastricare il tratto di strada che da Vila, il capoluogo dell’isola, porta a Ponta Preta, può considerarsi davvero fortunato, il lavoro per un bel po’ non gli mancherà. Sono anni che lo conosco, e l’ho sempre visto in quella zona, un’area non molto grande, tanto che mi chiedo spesso dove va a trovare tutte quelle pietre, come se col tempo si rigenerassero e ricrescessero, quasi fossero piante.

Assiste al lento cambiamento del suo paese. Là dove lavora, fino a pochi anni fa non c’era neanche un’abitazione, solo deserto, di polvere, di pietre e di terra, tante capre libere di pascolare, tra arbusti secchi e radi alberi isolati.

Poi, anche a Maio sono arrivati i turisti, pochi ma abbastanza da far cambiare l’aspetto del paesaggio. Sono spuntate alcune case, sparse qua e là, senza un piano apparente, ed è arrivata anche l’illuminazione pubblica. Fra poco arriverà la strada nuova. Rocha è invecchiato, difficile stabilire la sua età, il paese sta cambiando anche grazie al suo lavoro, non solo la nuova strada, anche i muretti e talune case portano il segno della sua fatica, alcune facciate infatti sono parzialmente ricoperte dalle pietre che negli anni ha modellato e lavorato con tenacia ed ostinazione.

L’acacia, sotto la cui ombra per anni si è riparato, oggi non c’è più, ma lui continua la sua opera anche sotto il sole. È una roccia, è proprio il caso di dirlo, mai nome si è rivelato più adeguato.

Parla un creolo molto difficile per me, ma conversare con lui è un piacere, anche se non afferro la maggior parte delle cose che dice, e chissà quante lui ne capisce di quelle poche che, in un portoghese o creolo alquanto stentato, mi sforzo di pronunciare. Alla fine della chiacchierata però, entrambi abbiamo la sensazione, anzi di più, la certezza, che ci siamo capiti alla perfezione, e ci salutiamo come vecchi amici dandoci appuntamento até a próxima.

Quelle strade, non ancora nate, sono attraversate dalle signore che portano pesanti secchi in equilibrio sulla testa, e dentro i secchi c’è acqua da riciclare, acqua non buona da bere, non per gli uomini, ma che va benissimo per le capre e per i loro capretti.

Queste donne percorrono tutti i giorni chilometri di strada e sentieri sconnessi, a piedi e con in testa i pesanti recipienti, per portare l’acqua ai loro animali, e tutti i giorni è così. Senza le capre, da queste parti, la vita può essere difficile, per molti sono indispensabili, rappresentano un’importante fonte di sostentamento, non solo per le carni, con cui viene cucinato il cabrito, uno dei piatti tradizionali della cucina capoverdiana, ma anche perché forniscono il latte con cui vengono prodotte le piccole forme di formaggio fresco, vendute per tutta l’isola.

Da qui passano anche le ragazze che, per magri compensi, fanno le pulizie nelle case degli europei, spesso pensionati, che hanno acquistato un appartamento, e qui vengono a trascorrere buona parte dell’anno. Per quanto inadeguati, questi guadagni rappresentano comunque un’integrazione importante al salario dei loro uomini.

Per queste strade ci passano anche i pescatori, con la scarna attrezzatura per la pesca, che si arrischiano a scendere dalle alte scogliere a strapiombo, alla ricerca di luoghi dove trovare il pesce migliore, e ad affrontare le ondate che sferzano pericolosamente le rocce da dove lanciano le lenze.

E poi ci passano, la domenica, anche i bagnanti che si spingono fino alla grande spiaggia di Ponta Preta, a trascorrere alcune ore di relax. Lo chiamano piquenique, e comprende il bagno per i più audaci, mentre gli altri rimangono a godersi il sole, all’ora convenuta a cucinare il pesce appena pescato, a mangiare, a bere, ascoltare musica, ballare, stare insieme, dimenticandosi per un po’ di come va il mondo, perché in quelle poche ore il mondo è fatto solo di quelle piccole cose, di quelle poche distrazioni, a tutto il resto si penserà in un altro momento.

La polvere intorno è polvere di terra rossa, a tratti anche nera, di roccia vulcanica, antichi residui di lontane attività eruttive, dimenticate, o mai ricordate. Presto tutto questo non ci sarà più.

Anche le capre, rossicce, nere o grigie, non si distinguono, si mimetizzano alla perfezione con gli elementi del paesaggio. Si notano solo dei rapidi movimenti tra le piante e gli alberi di acacia, allora è chiaro, sono loro, o qualche raro asino, oppure ci si accorge che esistono quando un caprettino comincia a belare e a piangere con insistenza perché ha perso la mamma, ed allora il lamento si fa prolungato, acuto, a momenti persino fastidioso, si vede questo cucciolo che saltella veloce, che grida a voce alta, con la lingua di fuori, come per istinto naturale, ed infatti, come per miracolo, da qualche parte spunta una capra più grande, e deve essere senz’altro la mamma, visto che improvvisamente i belati si interrompono e si ricompone la pace e la tranquillità familiare.

Forse anche questo scomparirà. Il primo tratto di strada, quella già pavimentata, è lungo poco più di un chilometro.

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Cominciai a percorrerlo, senza sapere dove sarei arrivato, né chi avrei incontrato lungo il percorso. Anche per me era una novità. Non volevo giocarmela come un avvenimento lampo, di quelli che finiscono d’un botto, volevo piuttosto prendermela comoda, darmi delle opportunità, conoscere gente, chi già da quelle parti abitava, turisti che accompagnavano il cane al guinzaglio nell’uscita pomeridiana, ma anche passeggiatori casuali, che si trovavano lì anch’essi per curiosità, o anche perché quella era l’unica strada che portava al luogo di lavoro, che poteva essere una casa in costruzione, oppure una già finita, che almeno una volta a settimana necessitava di una pulizia generale, a meno di non trovarsi nella stagione del vento, che sull’isola soffia costantemente. Ma ci sono periodi dell’anno, a gennaio, a febbraio, che il vento solleva la polvere e la trasporta dappertutto, ed allora, in quei giorni, le pulizie devono essere più frequenti, se non si agisce in tempo la polvere si deposita ovunque ed in pochi giorni ricopre ogni superficie, si infila in ogni luogo, passa anche attraverso le porte e le finestre chiuse, persino dove nemmeno le blatte riescono ad entrare, la polvere la trovi davvero in ogni spazio libero, ricopre senza pietà il mondo di ruggine, e la pulizia in questi casi diventa indispensabile, quasi vitale.

Avevo come il ricordo che quella strada l’avevo già vista nascere da qualche altra parte, in un altro tempo, i tecnici impegnati da giorni, sotto il sole cocente, ad effettuare i rilievi e le misurazioni, con attrezzature che sembrano rudimentali, almeno così a me appaiono. Non deve esserci stato molto progresso in questo campo, sono le stesse che vedevo quand’ero bambino, quando anche dalle mie parti stava nascendo una nuova strada, un teodolite rudimentale, un treppiedi con uno strumento ottico in cima per misurare l’angolazione, ed altri parametri che non saprei descrivere, un mondo nuovo nasceva dal nulla.

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Osservando questi uomini al lavoro, ho come l’impressione di essere tornato indietro di una quarantina d’anni, per ritrovarmi direttamente nei luoghi della mia infanzia. Anche questo è Capo Verde.

Persino la calura, nei ricordi, sembra la stessa, gli uomini al lavoro si difendono con cappelli dalle ampie tese, cercando di rimanere lo stretto necessario sotto i raggi del sole, ed alla prima occasione si rifugiano all’ombra dei pochi alberi rimasti. Da qui a pochi giorni dovranno tracciare la linea che divide le due corsie, ed hanno già selezionato le pietre che useranno come segnaposto, cosicché già è possibile intuire come verrà diviso il manto stradale.

Le ruspe sono al lavoro da alcuni giorni, hanno ripulito la strada sterrata dai sassi, dalle pietre più grosse, e dagli alberi che, con le chiome sporgenti, occupavano lo spazio dove sorgerà la strada.

A vederla così spogliata sembra più ampia, più larga, dà un’impressione di una strada dove potranno passare agevolmente anche due grossi camion affiancati. Non era così fino a pochi giorni fa, e adesso tutto appare più grande, una visione che non conoscevo, larghe distese di terra che però, temo che in pochi anni, saranno occupate da case ed altri edifici. La città si sta allargando, e si sposta anche da queste parti, ci sono progetti di sviluppo turistico che prevedono lo sfruttamento della parte sud dell’isola, con la costruzione di una strada asfaltata che, costeggiando l’oceano, unirà i paesi che attraversa e se anche i tempi non saranno rapidi, comunque i lavori sono iniziati e non sarà facile, e forse neanche giusto, fermarli.

L’unica speranza è che si riescano a coniugare le esigenze turistiche con quelle della preservazione dell’ambiente naturale.Ne ho immaginate altre di storie su questa strada che sta per nascere. Sembravano interessanti, ho dimenticato, tuttavia, le parole con cui le avevo sognate, e che costituivano l’ossatura dei dialoghi fra i personaggi, che erano tanti, non c’era solo Rocha, le donne e i pescatori, non solo i tecnici e gli operai del comune, i falchi o le capre, le acacie e gli arbusti, i sogni e le distrazioni.

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Provo a recuperarle facendo riemergere i ricordi che si presentano sotto forma di quesiti, e ancor più di rischi e preoccupazioni per ciò che potrà essere. Ma più avanti cosa c’è? Sono già cominciati i lavori? Ci saranno ancora le capre? E gli alberi?

Nei sogni i miei timori si presentavano sotto forma di domande, rapide ed incalzanti, a cui non facevo in tempo a trovare risposte, perché seguite immediatamente da un’altra lunga serie di dubbi o paure, che non riuscivo a tenere sotto controllo.

Oppure mi capitava di dimenticare le risposte, di rimuovere futuri scenari, forse perché non volevo prestare l’attenzione dovuta a ciò che intuivo o prevedevo. Non capivo il perché di tutta questa disattenzione. O forse sì, semplicemente non volevo crederci, non volevo accettare la fine di un mondo.

Cerco di distrarmi, avverto il bisogno di parlare, ad ogni momento, di colmare dei vuoti che pesano, il silenzio che si viene a creare dentro me non riesco proprio a sopportarlo, è invadente, avvinghiante, perfino pericoloso. Non capisco più se ciò a cui sto assistendo fa parte della realtà, oppure si tratta di storie inventate.

Di una cosa tuttavia sono certo, e cioè che anche le storie inventate, chissà per quale sortilegio o quale forma di dannazione, prima o poi, diventeranno vere. E, in forma di memorie o di sogni, percorreranno strade nuove e acquisteranno una consistenza del tutto simile alle vicende accadute e di cui avremo ricordi chiarissimi.

Sul numero 0 di Erodoto108 abbiamo pubblicato il racconto “Passaporto per Capo verde” di Antonio Danise.