Testo e foto di Tommaso Chimenti
Provi a contarle le antiche formelle rosa intarsiate e incavate in mezzo a tutto quel bianco venato dal tempo. Sembrano giochi da spiaggia, formine erose di plastica per metterci la sabbia e tirare su castelli fragili che le onde si mangeranno. Stare sotto il pulpito dà il brivido dell’incoscienza ma anche della verità che sopra aleggia e provvede, staziona e volteggia, della presupponenza e prepotenza ma anche della ricerca del giusto e dell’onesto, del dito indice puntato moralizzante verso il mucchio ma anche dell’autocritica verso i propri atteggiamenti e comportamenti. Nessun facile perdono o semplice assoluzione si ottiene sotto il pulpito in piazza. Il pulpito però non è la gogna, ma è comunque ascolto, dialogo, comprensione.
Il pulpito è il monito, il pulpito vede e inchioda, si affaccia sulla piazza ma sta un po’ più in alto, lo guarda dall’alto verso il basso, vede indistintamente una massa informe. Il pulpito è lo scovare la veridicità, è riuscire a vedere meglio le nefandezze, potendole urlare, raccontare come megafono, come muezzin in preghiera. La fontana non sgorga in questi giorni di Festival del Giornalismo. Però corrono le parole, zampillano le notizie, frusciano gli articoli e imperversano i documenti, scorrono le relazioni. Il pulpito ci guarda, il pulpito siamo noi che ci giudichiamo. Senza piaggeria né accomodanti alibi. Come il buon giornalismo dovrebbe fare.