Testo e foto di Tommaso Chimenti
Esiste tangibile un contrasto di opposti nella terza città della Spagna, dopo Madrid e Barcellona. Il Grande e il piccolo, l’enorme e l’infinitesimale, il mas grande e il pequeno a Valencia convivono in un continuo zoom dal gigantesco al microscopico. L’Oceanografico e le tapas, Il Bioparc e le calle della Ciudad vella, lo stadio Mestalla, la squadra con il pipistrello per simbolo dove gioca il nostro Simone Zaza, e i bocadillos, il Palau del les Arts Reina Sofia e le miriade di murales coloratissimi, incisivi, divertenti, pungenti, politici. L’imponente e il ridotto, come dire: Gulliver.
E infatti, nei Giardini del Turia, dieci chilometri di verde ricavati dal letto del fiume omonimo dopo l’alluvione del un immenso corpo disteso ricorda il naufragio del famoso navigante reso prigioniero dai Lillipuziani. In questo caso siamo noi. Un colosso-statua-monumento trasformato in gioco e giostra e contornato da decine di scivoli consunti e velocissimi. A Valencia sembra di stare in un gioco con attrazioni continue che spuntano ad ogni angolo. Ci sentiamo Alice nel Paese delle Meraviglie: le imponenti torri, della del Quart o quella del Serrano, la spiaggia chilometrica, la Malvarrosa, e le piazzette dove il caldo dei peperoni al pimiento, del pulpo alla gallega, del lomo, dell’anguilla cucinata alla “all i pebre”, della paella con zafferano, pollo e coniglio servita nelle classiche tonde padelle nere e bruciacchiate si scontra e si confonde con la freschezza dello jamon, con il ghiacciato delle immancabili caña de cerveza. Valencia è a misura d’uomo, viva, sorride, lascia dietro di sé un buon odore di horchata che si attacca sulla pelle e la fa respirare.