Testo e foto di Francesco Sandri

Per arrivare a Poganovo bisogna passare alcune ore accanto alla via lattea di buchi di talpe che costellano i campi erbosi e incolti. A febbraio le campagne dormono e i boschi a bordo strada sembrano secchi come setole di uno zerbino. Più in alto, le cime tondeggianti si nascondono sotto un velo fino di neve. Poi d’improvviso un canyon, una strada sterrata, un piccolo guado. Lo starnazzare isterico delle oche avvisa Vlado dell’arrivo degli ospiti.

Ottuagenario dagli occhi piccoli, azzurri e senza occhiali, non parla una parola di italiano o inglese. Rughe profonde gli segnano il viso, ma sale ancora le scale due gradini alla volta. Mentre col bastone tiene a bada i pennuti da guardia, tira fuori una bottiglia della sua migliore rakija, distillata personalmente dalle mele che crescono su queste colline al confine con la Bulgaria. È il mezzo di comunicazione universale. I bicchierini che appoggia sul tavolo di assi consumate non fanno mai in tempo ad arrivare al fondo che tornano immediatamente pieni. È venuta buona quest’anno la rakija, fa capire a suon di sorrisi. Dentro ogni sorso che versa orgoglioso riposa l’essenza di queste terre. Colpiscono entrambe con la durezza secca del clima continentale, per poi consegnare i sensi del viaggiatore a un ricordo fruttato, persistente e dolce.

Il vecchio Valdo sorridente

Oltre a Valdo, la grande chiesa del bicchiere sempre pieno conta tra i suoi iniziati anche Vuk, il lupo. Un nome forte scelto cinquant’anni fa per un bambino nato prematuro, che l’ha poi accompagnato fino ai suoi 140 chili e la folta barba lunga più di una spanna. La bottiglia da litro e mezzo di acqua “Drosia” che tiene in mano si svuota in fretta. In realtà custodisce al suo interno la preziosa slivovica prodotta nel monastero ortodosso in cui Vuk è venuto a ritirarsi fuggendo dalla giungla cittadina. L’abito di monaco era uno dei pochi che gli mancava indossare.

L’accento americano del suo inglese tradisce i molti viaggi compiuti nel mondo ancor prima che li racconti nei dettagli. L’impeto nel bere suggerisce un passato di birre e bettole. I cori da stadio che a tarda serata canta a gran voce collocano la sua gioventù nelle curve ultrà della Crvena Zvezda, la Stella Rossa di Belgrado, quelle dove Arkan (Željko Ražnatović) reclutava le “tigri” per il suo gruppo paramilitare, la Guardia Volontaria Serba, tristemente attivo durante il turbinio delle guerre balcaniche. Stanco degli eccessi di queste esperienze, ha trovato nella religione la risposta alle domande che lo mantenevano inquieto. Tra tre anni sarà anche lui monaco. Però chissà, magari tra dieci si troverà ad allevare pecore nelle highlands scozzesi o a fare il cuoco in un mercantile nell’oceano indiano. Nel galoppo bendato che è la vita di questo santo bevitore è un’ipotesi perfettamente possibile.

Poganovo rimane dietro alle spalle e dentro il cuore. Riprendendo il sentiero dei buchi di talpa ci si rende conto di quanto siano intense le relazioni che vengono a crearsi tra gli alberi spogli d’inverno, suggellate dall’ambra alcolica che regalano prugne e mele. Chi non ci è abituato rimane profondamente colpito nel vedere in così poco tempo la propria famiglia allargarsi con un brate moj (fratello mio) monaco contro ogni cliché, e un deda (nonno) che lascia un’eredità di sorrisi ai viandanti che capitano alla sua porta.