Testo e foto di Francesco Sandri
La città più occidentale dell’oriente, dove cinque volte al giorno l’aria vibra al canto mistico dei muezzin, sembra indecisa. Non sa se mostrare un cielo caldo di rade nubi primaverili o se coprirsi di un soffice manto bianco. Alla fine opta per entrambe le scelte. Nevica sui parchi, sui tram e sulle macchine; il sole riscalda i minareti, le ferite dei colpi di mortaio e i fori di proiettile nei muri. Anche il clima non vuole che il mondo dimentichi ciò che è stato l’assedio di Sarajevo.
Ma il mondo, si sa, soffre di demenza senile fin da bambino. Se ieri era la Bosnia oggi è il Rakhine. Se era Sarajevo, ora è Idlib. Ma queste per molti sono terre distanti, invisibili. L’altrove.
Se oggi è l’altrove, ieri era davanti a casa nostra. E gli edifici ancora traforati come formaggi svizzeri sono qui a ricordarcelo, chiedendoci se veramente siamo così bravi a dimenticare e ripetere gli stessi orrori.
Cala il buio a Sarajevo, le cicatrici degli anni novanta scompaiono e la vita continua nei bar. L’atmosfera accogliente e festosa concentra tutta l’attenzione sui canti di gruppo e sulle bottiglie da mezzo litro, a temperatura ambiente, di Sarajevsko Pivo.
Dzeilan deve averne bevute già molte e osserva il minuscolo bar dal suo angolino di fiducia, appoggiato metà alla sedia e metà al tavolo. Sorride quasi senza denti e mette in mostra i tatuaggi scoloriti che si è fatto fare in carcere.
Beve l’ultimo sorso d’un fiato e all’improvviso rattrista il suo volto sessantenne. Invita con un gesto ad appoggiare le dita sulle tibie coperte da pantaloni di pelle spessa e nera. Mentre fa toccare con mano il lascito profondo dei proiettili che l’anno gambizzato durante l’assedio sembra chiedere a tutti quelli tacciono di fronte alle nuove guerre “siamo veramente così bravi a dimenticare e ripetere?”.