Cartolina di Marta Gaggini
Ho finito il giro di Londra. Non parlo della lista delle attrazioni imperdibili con cui la Lonely Planet corrompe i viaggiatori. Ho finito il giro di Londra in senso letterale. E no, non parlo neanche degli itinerari consigliati dalla Lonely Planet. Parlo del Capital Ring, dei suoi 127 chilometri intorno alla città e, se vogliamo, parlo di quest’esperienza che si chiude sacrificando sé stessa per permettermi di scrivere le prime righe di un nuovo capitolo.
Ma procediamo con ordine. Vivo a Londra dallo scorso marzo. Correzione: dallo scorso marzo vivo a Heathrow, dove gli aerei atterrano, un’ora buona di metropolitana dal centro. A Londra ci avevo già vissuto, nell’anno delle Olimpiadi e del Giubileo della Regina, e l’avevo conosciuta abbastanza da non sentirmi più prigioniera di Notting Hill, ma non tanto da smettere di perdermi a Covent Garden e di credere che il Tower Bridge sia un falso. Ora. Per combattere l’obesità a cui sembro condannata dal mio nuovo lavoro d’ufficio decido di dedicarmi all’unica attività fisica di cui la mia resistenza muscolare mi rende capace: camminare. Camminare mi piace. Mi piace l’idea di mettere un passo davanti all’altro, e di veder scorrere il panorama alla media sconcertante di 4 chilometri l’ora. Mi piace l’idea che l’unico modo per cercare la propria strada sia mettersi in viaggio. Per dare una meta ai miei passi scelgo di percorrere il Capital Ring, l’anello che ingioiella la periferia londinese. Così raggiungo il Woolwich Tunnel e do un senso alle mie scarpe da trekking. Quella che attraverso è una Londra che ancora non smette di stupire. Ci sono boschi, grandi prati, scoiattoli, traghetti che attraversano il Tamigi. Ci sono cavalli al pascolo coi grattacieli, canne da pesca, chiatte appoggiate ai canali. Ci sono campi di cricket con anziani vestiti di bianco e campi da rugby con bambini che giocano urlando. Ci sono mucche. Mucche. Ci sono le mie memorie di altre terre, e bovindo (finestre, italianizzazione del termine inglese bow window, ndr) che nascondono centinaia di vite diverse. Ci sono tutte le culture che trovano rifugio nei risvolti della capitale: ebrei ortodossi, sari indiani, guglie gotiche e minareti.
Quella che attraverso è una Londra senza Big Ben. Mi ritrovo proiettata in questo cerchio, in orbita intorno a un centro che coincide senza dubbio con la statua di Nelson. E lì, in Trafalgar Square, Londra esercita la sua forza gravitazionale, attirando a sé stessa tutte queste culture raccolte dietro l’architettura inglese delle loro facciate. Lì tutto questo mondo spolverato sulla periferia collassa. San Patrizio, Diwali, Eid Festival: Trafalgar Square celebra la Londra multi cromatica che si raccoglie all’interno di questo Capital Ring dalla forma vagamente ellittica. Nelson se ne sta al suo posto, osserva, e chissà cosa pensa.
Londra è una galassia. Non si può raccontare col Big Ben e l’English Breakfast, quella che si vede lungo il Tamigi è solo la città che fa mostra di sé stessa, un parco giochi della storia moderna. La vera Londra ha bisogno di templi indiani e veli islamici per raccontarsi tutta. Ha bisogno di camminare nelle periferie dove non arriva la metropolitana, per attraversare i paesaggi inaspettati che sembrano buchi neri di quella capitale immortalata nella Lonely Planet. Londra è, semplicemente, in un’altra dimensione, un universo su cui si spalancano i bovindo. Ho finito il giro di Londra e continuo a perdermi a Covent Garden. Ho 127 chilometri di Londra nelle gambe, eppure ancora mi coglie di sorpresa come una stella cadente. Mi chiedo come possano, tutte queste realtà così distanti, culture e geografie, riconoscersi in un nome soltanto, riconoscere il proprio centro ai piedi della statua di Nelson. Mi chiedo se aver attraversato boschi e praterie, e costeggiato laghi e canali, e incontrato uomini coi turbanti e donne col sari basti a dire che ho fatto il giro del mondo.
Ma Londra non è il mondo, Londra è un Sistema Solare, per cui quella che ho fatto è una rivoluzione. C’ho messo nove mesi anziché un anno, ma poco importa dal punto di vista astronomico. Quello che conta è che torno al punto di partenza. E la cosa, com’è inevitabile, spaventa. Ma quando ripartirò avrò un bagaglio di memorie nelle scarpe da trekking, avrò alle spalle una strada percorsa, con tutto quello che comporta, compresa la capacità di credere che ci si apra davanti una strada diversa. Quindi faccio una sosta, saluto questa Londra che è nebulosa e Stella Polare, e abbandonando l’ausilio del navigatore satellitare comincio una nuova, eccitante e spaventosa rivoluzione.