Era il gennaio del 1968. Il Terremoto del Belice tirò giù quattordici paesi, alcuni in modo totale. Tra questi Gibellina, Poggioreale e Salaparuta, in provincia di Trapani, e Montevago in provincia di Agrigento. Il terremoto mise a nudo l’arretratezza di questa parte della Sicilia: nel 1973 i baraccati erano ancora 48.182, le ultime 250 baracche furono smontate nel 2006. La cartolina di Paolo Calvino.
Nel 1981 Ludovico Corrao, sindaco della nuova Gibellina, invita Alberto Burri a visitare la città. Negli anni precedenti Corrao aveva chiamato altri artisti a realizzarvi le loro opere. Per gli anni Settanta, una duplice utopia: disseminare l’arte nelle vite quotidiane delle persone, scegliendo come arte quella contemporanea.
Burri ricorda: «Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui mi sento che potrei fare qualcosa».
Negli anni Settanta, Burri aveva realizzato una serie di opere in caolino e vinavil che, per via della cottura o dell’essiccazione, presentavano una superficie fessurata. Le chiamò Cretti; le ultime erano di grandi dimensioni, fino a quindici metri di lato. Presso i ruderi di Gibellina maturò il progetto del Grande Cretto.
Nel 1984 le macerie della case distrutte dal terremoto vennero ammucchiate e livellate in blocchi alti circa un metro e mezzo, tenuti insieme da reti metalliche. Corrao ottenne per l’operazione l’intervento dell’esercito. Sui blocchi venne colato cemento liquido bianco; ampie fenditure, larghe un paio di metri, li separano uno dall’altro.
Se fotografato solo in parte e dall’alto, il Grande Cretto è un cretto come gli altri; visto da lontano insieme con il paesaggio circostante, è una pietra sepolcrale posta sul prato di un cimitero.
Non ci si avvicina ad essa, però, per leggere i nomi dei defunti, ci si entra camminando nelle fenditure. Si capisce, in tal modo, che queste non sono fessurazioni casuali come quelle prodotte nei piccoli cretti dalla cottura; sono le vie di un paese, un tempo percorse dai suoi abitanti. Il visitatore è trasportato nei luoghi per eccellenza della vita sociale e allo stesso tempo costretto a constatare che la vita non vi scorre più.
Ancor più delle rovine dei non lontani templi di Selinunte e Segesta, i blocchi bianchi e grigi di cemento rendono percepibile l’assenza, la scomparsa di chi in quei luoghi ha vissuto.