testo e foto di Elena Dak
Andare per musei può voler dire anche varcare la soglia di una tenda o una capanna se ti trovi a percorrere le sabbie dell’Adrar mauro. I manufatti del neolitico, e gli oggetti di uso tradizionale quotidiano dei pastori nomadi sono quanto di più prezioso si possa trovare e raccogliere su questo terreno che alcuni millenni fa era verdeggiante e assai più popolato di oggi. Mi aspetto di visitare questi oggetti all’interno di piccole costruzioni in muratura o argilla cruda. In realtà si è’ privilegiata la semplice ma essenziale necessità di creare uno spazio pur di sabbia ma distinto dal resto delle sabbie, al riparo dal sole e dal vento e un tessuto o della paglia sono quanto di più immediato nel Sahara per proteggere dagli eventi atmosferici più frequenti e impietosi.
Il primo museo è annunciato da un insegna tanto bella che meriterebbe di trovare posto, essa stessa, sotto l’ombra della tenda che un bimbo ci indica come la sede del Museo di Jrief. Alcuni rami spugnosi di Calotropis procera sorreggono la tradizionale tenda di lana di cammello e solo un unico filo spinato teso alla base fa intendere che si sta entrando sotto un’ombra diversa da quella di un nucleo domestico.
Gli oggetti sono in parte appesi e alcuni affastellati al punto che non resta spazio per entrare nel museo, pertanto possono solo essere ammirati stando all’esterno di quel perimetro.
La disposizione delle “opere” è un po’ approssimativa ma decido di rimuovere il pensiero per rispetto del luogo e di quel cartello che in doppia lingua informa del piccolo tesoro.
A qualche decina di km di là si entra nella zona di El Beyyed, tra spianate ricoperte di pietre arroventate dal sole e Wadi sabbiosi e accoglienti. Incontro un vecchio, che mi viene a cercare. Conobbe Theodore Monod al quale mostrò le pietre che aveva trovato e fu il grande sahariano a suggerirgli di allestire un museo per conservare quei reperti.
Una foto del vecchio campeggia su un libretto dedicato all’Adrar di cui ho copia e gli chiedo un autografo che pone con orgoglio e lentezza. L’abito blu gonfio di vento, si avvia con le chiavi della capanna-museo tra le mani. Sul pavimento di sabbia tutto è esposto secondo un preciso disegno sia grafico che progettuale quasi ottocentesco. Di ciò che sa racconta ogni dettaglio, di quel che ignora afferma il non sapere senza pudore.
Asce, amigdale, punte di freccia, pestelli, macine e uova di struzzo sono disposti con estremo ordine e semisommersi dalla sabbia che copre e protegge al tempo stesso. La capanna lascia passare tra le fibre di paglia alcune lame di luce. Il vecchio Yeslem sta accoccolato tra gli oggetti da lui raccolti e li indica o solleva con delicatezza.  Il suo francese fluisce vellutato tra le labbra e lancia innumerevoli interrogativi su quegli uomini vissuti in tempi lontani di cui egli è erede e della cui memoria, custode.
 

Elena Dak, 47 anni, veneziana, è scrittrice e viaggiatrice. Dal ’97 lavora come guida per l’agenzia Kel12. Laureata in Conservazione dei beni culturali, indirizzo antropologico, presso Cà Foscar, ha attraversato il Tenerè al seguito di una carovana del sale. Ha scritto “La carovana del sale” edito da Corbaccio e “Sana’a e la notte” edito da Alpine Studio. La trovate su www.elenadak.it.