Testo e foto di Sabrina Maio

E’ la solitudine la prima necessità, rientrando da un viaggio in Patagonia. È un’esigenza non solo della mente, perchè la Patagonia è anche un viaggio del corpo nel silenzio. Col corpo la si attraversa nelle sue estreme lunghezze. Ed il corpo ne viene penetrato dallo Zonda e provato dal calore di alcune zone, come dal freddo in altre, più a sud. Ne hanno scritto in tanti. È un cult road. Ma raccontarne è arduo perché gli spazi immensi della meseta annullano i propri pensieri e la propria storia. Non si hanno ricordi, impegni, affetti a cui pensare. Si entra in una dimensione di sospensione sotto una cappa di magnetismo australe. La propria esistenza ridotta all’osso.

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Il mio arrivo in Patagonia inizia con l’ atterraggio in piena steppa a El Calafate. Sono sorprendenti gli arrivi nei piccoli aeroporti patagonici perché non si ha mai la percezione di dove sia l’aeroporto e ci si sente padroni del cielo e della steppa che vi soggiace. La cittadina di El Calafate possiede un’allegria, ricercata ed inusitata, sia per chiaro richiamo turistico nella sua Avenida principale de Libertador,sia per un voler affermare a gran voce la propria esistenza in un angolo dell’estremo sud del mondo. La luce autunnale è radente e, in special modo verso le ore del tramonto, illumina ancora di più le case di legno dai colori vivaci. Camminando per le stradine polverose del villaggio si sente spesso musica rock ad alto volume ed il sorriso sonnacchioso degli abitanti non viene mai risparmiato agli ospiti giunti lì per la loro punta di diamante, il Perito Moreno, il Ghiacciaio Vivente. Nonostante le Ande si intravedono nella loro maestosità alle spalle,è l’affaccio sul Lago Argentino, dal suo tipico color azul,che diventa la vera cornice. Tutte le strade scendono perpendicolarmente verso la riva, attraversate da una moltitudine continua di cani liberi e sciolti tra gli olezzi della tanta carne arrosto,probabilmente i veri custodi del segreto di El Calafate.

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Ed è costeggiando il lago che ci si incammina verso la mitica Ruta 40 che, insinuandosi nel deserto patagonico, conduce all’avamposto di risalita verso il Norte, Rio Gallegos. Arrivandovi non si può fare a meno di chiedersi come non possa non avervi mai girato anche un solo millimetro di pellicola alcun regista. Rio Gallegos è una cittadina a forte vocazione portuense sul fiume omonimo con enormi capannoni , che ai più non sembrerà bellissima. E’ un luogo di confine, in cui ognuno può riconoscersi in un improbabile Bagdad Cafè, o trovare qualcosa di sè, che riteneva smarrito.

Il terminal dei pullman è lì ad aspettarci, un vero coacervo di piccole vite emotive.Anche uno sguardo timido ed imbarazzato non può non spiare gli abbracci struggenti dei familiari che accompagnano i propri cari alla lunga traversata con i vari collectivos; i chicos locali fanno continui girotondi in jeep per un dolce rituale molesto verso l’immancabile ragazza straniera; i corpi stanchi e rilassati di chi sa del lungo viaggio che lo attende…Tutti verso un altrove che ci entrerà nei nervi, assalendoci nel dormiveglia mentre attraversiamo la steppa silenziosa sotto un cielo perforato di stelle, entrando e sviscerando piccole cittadine dormienti che riveleranno la loro vitalità diurna nei tanti murales , inneggianti alla Justicia e Libertade, e nelle insegne consunte della miriade di panificadores e kioscos che si incontrano nella notte verso un’alba che ci sorprenderà dall’oceano a destra lentamente.