Di Andrea Semplici

Scarpata di Nôtre Dame de Haouqa. 
E, forse per paura del vuoto, colpa delle mie vertigini, forse perché l’eremita, suo malgrado, è diventato un’attrazione per escursionisti, mi interessa di più Thérèse. Che non parla francese. Ma c’è Odette che mi aiuta. Due donne della mia età (un po’ più giovani, temo). Nomi cristiani: mi dicono che sulle carte di identità non c’è più l’indicazione della ‘religione’, ma basta il nome (o, alla peggio, il luogo di nascita) a rivelarlo a chi ti sta davanti. Le liste elettorali, mi spiegano, sono su base confessionale e si vota solo nella regione di nascita. Il Libano è un equilibrio di grovigli. Da non sfiorare. Da non togliere nemmeno una pietruzza.

Ma ora ho interesse solo per Thérèse. Che ha un tranquillo senso degli affari: un baracchino sgangherato là dove comincia l’impervio sentiero per raggiungere l’eremo di Haouqa. Luogo perfetto. Ha un frigorifero, un forno circolare per cuocere pane libanese, un secchio di plastica con dentro za’atar, una delizia. L’orto a due passi. Cosa vuoi di più? Si risale, a fatica, dall’eremita e lei è lì. Non fa nemmeno un passo, sa che tutti si fermeranno da lei a cercare fiato e pensieri. E, almeno, qualcosa da bere.

L’eremita è Darìo Escobar. Non sono arrivato fino a lui. Mi sono fermato prima, mi sono seduto all’ombra di olivo e ho lasciato passare avanti gli escursionisti. Ha 84 anni, Darìo, leggo in un articolo. E passa le sue giornate in preghiera. Elena mi aveva suggerito di incontrarlo, altri amici libanesi avevano alzato le spalle. Gli articoli che narrano di lui sono tutti uguali (almeno quelli che ho trovato): dodici ore di preghiera, due di lavoro nell’orto, meditazioni. E tutti si affrettano a precisare: viene da Medellin, è colombiano,,ma niente ha a che fare con Pablo. Sì, ora che sono lontano credo che mi sarebbe piaciuto incontrarlo. Un’altra volta, insh’Allah, se Dio vorrà.

Va bene, mi fermo da Thérèse, perché sono uno snob e ho le vertigini. E poi c’è lo za’atar. E poi nessuno mai scriverà mai di lei. Tutti a scrivere dell’eremita.

Fuma molte sigarette, Théreèse, sorride, si fa fotografare, alza un po’ i prezzi. Odette, invece, è di passaggio. Lei vive in Canada. Ogni anno torna nel suo Libano. Non ha venduto la casa di Beirut. Oltreoceano c’erano già i figli. E’ andata via. Vent’anni fa, il marito era morto e bisognava riunire la famiglia dispersa ai quattro angoli del mondo. Ma la nostalgia di Odette…il Libano è il paese più bello del mondo…il cibo migliore, le poesie più belle. Quando riparte da Beirut verso gll inverni canadesi, ha le valigie piene di za’atar, menta, arak, fichi secchi e li porta a Montreal. Il figlio è venuto dal Canada per trovare l’eremita: due anni fa, gli aveva detto che avrebbe dovuto aspettare un anno per avere un figlio. E poi, un’altra volta, aveva previsto la nascita di un altro figlio, mentre la moglie era ancora incinta. E così è stato. Oggi porta i due bambini da Darìo. Una benedizione.

Odette giura: non venderò mai la casa di Beirut, i miei vicini italiani a Montreal – dice – lo hanno fatto. Penso alle Calabrie di Vito Teti, agli uomini che si portano i fichi fino a Toronto. Che paese è il Libano? Il paesaggio ha l’asperità delle Calabrie. Gli uomini e le donne se ne vanno e la pelle del ricordo si strappa sulle rocce dei dirupi. Lasciano frammenti del loro corpo nelle montagne (anche se sono nati in riva al mare).

Eppure questo è un paese in cui ci si vive sempre sul filo di un vuoto. Bisogna conoscere le geografie religiose per rimanere in equilibrio. Per sfuggire a pericoli veri o immaginari. Non si fanno censimenti dal 1932, ripetono tutti. Per non sapere, per non contarsi, per non togliere le pietruzze degli equilibri. I ragazzi che riescono a partire, non torneranno, mi raccontano i loro genitori.

Il forno (nessun romanticismo, forno elettrico, tondo e largo, un ‘testo’ degli Appennini) cuoce la piadina. Thérèse spalma con un cucchiaio dosi generosi di za’atar. Che meraviglia, sento lo scrocchiare del sesamo sotto i denti. Il cibo affratella: lo za’atar è la colazione dei palestinesi, l’ho assaggiato nei suk di Nablus, alla porta di Damasco a Gerusalemme, in Libano è adorato. Ho visto ebrei gioirne. La mattina degli esami, i ragazzi del Libano si rafforzano la mente divorando la piadina unta di timo e sesamo.

Lo za’atar, assieme al sapore delle ciliegie, è una delle ragioni per le quali è bello essere al mondo. E’ una prova dell’esistenza del divino, dico, e il frate calabrese, raffinato teologo, è d’accordo. La piadina mediorientale con lo za’atar, man’ooshe, è una delizia. Foglie di timo selvatico essiccate (si scelgono quelle più piccole), pulite, sbriciolate, rese polvere, mischiate con sale, sumac, sesamo arrostito. Infine olio. Provate labneh (yogurt), olio e za’atar. E ne rimarrete sempre con la nostalgia.

Thérèse mette sul tavolo pomodoro e cetrioli. Quando ce ne andiamo, ci riempie le mani di susine.