Di Andrea Semplici

Beirut
Mi rifugio in Gad Lerner e poi penso che il suo ‘Scintille’ lo ha scritto dieci anni fa. E’ un grande libro, Gad racconta un frammento di questo paese, ne intuisce la nostalgia, la bellezza, la irrinunciabilità, e, allo stesso tempo, la voglia di lasciarlo come un amore impossibile. I gelsomini e il letame.

E’ cambiato il Libano da quando lui è tornato a casa dopo oltre mezzo secolo di assenza e ha scritto questo libro? Allora era appena finita la guerra con Israele. E scoppiavano ancora bombe in città e c’era il gioco seducente di ‘luoghi comuni decadenti’: ‘Beirut è un fiore magnifico. Sappiamo che il suo profumo è velenoso, ma non possiamo impedirci di respirarlo’. Non so, non si sfugge dalla memoria della guerra finita quasi trent’anni, non so se si sfugge dal groviglio religioso-politico che, alla fine, credo, nasconde una cinica e feudale storia di potere e soldi. Non si sfugge dal rumore perenne di Beirut. Forse servirebbe silenzio. Eppure questa città mi piace. E so benissimo di camminare per un sipario.

Non riusciamo a entrare a BeitBeirut, palazzo sventrato dai colpi sparati quaranta e più anni fa, casa di notabili sulla Linea Verde della guerra, appostamento di cecchini. La casa è rimasta in piedi, fu deciso di non demolirla, avvertimento e monito per le prossime generazioni di guerrieri. Spiegamento di polizia, c’è un evento con i sauditi, non possiamo entrare. Passeggiamo allora per Asharafief, quartiere cristiano. Elegante, ricco, mall da shopping compulsivo. Per chi? Per chi guadagna 400 dollari al mese? Piazza Sassine con grande ritratto di Bachir Gemayel, che venne fatto saltare per aria a poca distanza da qui. La vendetta fu Sabra e Chatila. Mangiamo, finalmente, in una sgangherata bettola: ceci e limone e olio, insalata, polpettine…ricopio con diligenza i nomi arabi e subito li dimentico. Parliamo di politica. Ritrovo amici perduti, sono davvero passati quarant’anni. A Beirut riappaiono davvero amici su amici. Questa città ha accolto uomini e donne che non vedevo più dalla mia gioventù. Vorrà pur dire qualcosa.

E uno di questi amici mi dice: ‘Il Libano risorge sempre. Perché i libanesi sono liberi. E’ stato già detto: qui siamo tutti minoranze. Rinasciamo con il desiderio della libertà. E’ la nostra forza’. Come vorrei che avesse ragione.

Caffè su un grandi strade. Dovremmo uscire dalle grandi strade. Dall’arterie dove ci ingorga nei ‘ventagli’, ci intasa per ore e poi si preme sull’acceleratore. E’ che io non conosco gli svincoli e sbando come nelle partenze di Formula Uno. Caffè pieni. Luminosi. Città di luci, città di buio. I lampioni pubblici sembrano non accendersi, le strade illuminate dai neon delle insegne pubblicitarie. Ogni giorno, la luce manca per qualche ora. I palazzi hanno i generatori.

Si può decidere di prostituirsi: in due serate alla settimana una donna guadagna 400 dollari, lo stesso salario di suo marito in un mese. Il racconto è detto sul confine del sipario che separa il mondo dei ricchi da quello dei poveri. Bisognerebbe andare nelle strade secondari, al di là delle cortine. Nemmeno ti immagini cosa ‘vi è dietro’ mentre ti trovi nel mucchio di auto sulla M51 che ogni giorno percorriamo per raggiungere downtown.

A sera, c’è sempre la sorpresa: fra i palazzi, i condomini, il vetrocemento, i muri altissimi, i grattacieli, ci sono le oasi. Oasi raffinate. Come L’Appartement…alberi e luci delicate, negroni e arak, ragazzi-camerieri dall’aria gentile e bella. Casual dinner e good conversation, dice TripAdvisor. Guardo i prezzi. E i tavoli pieni alle dieci di sera. Frammento di Beirut. Al di qua del sipario. Sul palcoscenico.