di Sandro Abruzzese
Come tutte le cose del mondo anche questo libro ha una specie di storia. Forse la prima ragione per cui ogni cosa ha diritto a un po’ di rispetto è proprio quella di avere una storia.
Silvio D’Arzo, tratto da Casa d’altri, in Prefazione a «Nostro lunedì».
In Casa d’altri, di Silvio D’Arzo, c’è la figura di Zelinda che fa la vita delle bestie, con le bestie. Stessi orari, stessi tragitti, quasi la stessa alimentazione. Non basta? Non è un buon motivo per voler morire? Non è legittimo? A lei parrebbe di sì.
E c’è questo modo di guardare e vivere il mondo, da parte del narratore, che lascia sgomenti e disorientati man mano che si avanza. Silvio D’Arzo mette in scena la vita di protagonisti spaesati e nel farlo sembra agire per sottrazione, per sospiri e parole taciute che si liberano dall’assillo di fatti o di dialoghi roboanti. Casa d’altri racconta le pause, gli anfratti, senza mai scordare il peso che ci sovrasta, quel senso del ridicolo che emerge in qualità di domanda retorica e ironica al cospetto dell’esistenza: Tutto questo è un po’ ridicolo, no? Tutto questo è piuttosto monotono, no?, si chiede l’autore alla fine di ben due racconti.
È Gianni Celati a notare che D’Arzo è sì influenzato dalla linea narrativa degli americani come Henry James, tuttavia lo scrivere laconico rappresenta “il segno di una dissidenza (…) rispetto alla cultura dell’epoca, rispetto a una socialità data per scontata (…)”. Ciò finisce per rendere Casa d’altri un unicum nel panorama italiano, questo perché, -riprendendo Celati, – D’Arzo approda a una sorta di “prosa penitenziale”, muta, in cerca di riscatto, e non fattuale come quella degli americani che pure ama.
La lettura di Casa d’altri trasmette un poderoso senso del vacuo, lascia disarmati perché la sua forza è in una sorta di isolata rassegnazione dei protagonisti all’estraneità rispetto a ciò che li circonda. Lo smarrimento di D’Arzo, la sua sottrazione al vocìo, al rumore sovrastante della società contemporanea, portando in primo piano il quotidiano sommesso e semplice, appare davvero una protesta rispetto all’industria culturale, agli slogan e all’intera cultura di massa che si affaccia in Europa dirompente nel secondo dopoguerra. Inoltre in D’Arzo non c’è più un mondo conosciuto, non c’è un luogo in cui sentirsi parte del tutto. Ci sono gli individui sradicati, a disagio, e c’è l’indifferenza del mondo. Il mondo è strano, scrive l’autore, e ancor più bizzarro risulta il fatto che alcuni credono sia fatto per loro. Tuttavia rimane la scrittura: Niente al mondo è più bello che scrivere, aggiunge D’Arzo. Non si vede come dargli torto.