Testo di Luisa Fazzini | Foto di Marco Turini
“Che cos’è una montagna?”
Un bravo studente vi ripete la definizione spesso prevalentemente altimetrica del libro.
“Sei sicuro?”
“Una montagna è quel luogo che sfida le nostre capacità fisiche e psicologiche, che esige determinazione, concentrazione, audacia e senso del limite. La montagna (…) ci fa assaporare, misteriosamente e vertiginosamente, la libertà”.
Susanna Cressati – Erodoto 108 – Storie dall’esilio 3 – Editoriale
Se i vostri studenti non conoscono anche questo, potete cassare l’argomento dal programma. Sapere cos’è una montagna significa anche definire cosa provi.
La geografia è un rapporto di relazione e di percezione tra individuo e spazio. E io devo mettere il mio studente di fronte alle parole della montagna che non sono solo quelle della definizione, ma sono anche quelle della contaminazione tra interiorità ed esterno.
Non ci sono in nessun libro di geografia tradizionale.
Ecco perchè abbiamo creato questa rubrica: per dare voce alla geografia interiore.
Il numero on line Erodoto 108 – Storie dall’esilio 3 è interamente dedicato alla montagna.
Costruiamo un vocabolario di “spirito della montagna” pescando da questo numero.
Chiedete ai vostri studenti di aggiungere alla classica definizione di montagna quello che secondo loro manca dall’esperienza del vissuto. Classificate le aggiunte sulla base della percezione sensoriale:
• vista:
• tatto:
• udito:
• odore:
• gusto:
Leggete questo brano:
“Il profumo del Cervino” di Costanza Calzolari
“A me manca, ed è abbastanza stupefacente, l’odore della montagna. Ogni montagna ha un suo odore particolare, un miscuglio di resine, terreno umido, letame, neve, ghiaccio, foglie secche, in proporzioni diverse per ogni luogo ed ogni stagione. Se penso ad un odore che rappresenti il tutto, è l’odore della fontina. Ora, la fontina è un formaggio, a volte lo si trova anche nei nostri supermercati, ancorché scipito. Ma l’odore di cui parlo non è proprio quello del formaggio. O meglio sì, è l’odore del formaggio, ma è un odore che, in Val d’Aosta, trascende la forma o il pezzo di formaggio e impregna tutto, anche i luoghi dove il formaggio non c’è e non c’è mai stato, assume infinite variazioni di aromi, mischiandosi appunto a quelli della neve, del letame, della terra bagnata, delle resine. Perfino a quello del gasolio dei gruppi elettrogeni dei rifugi in alta quota”.
Ci sono nel testo percezioni che si possono aggiungere alla definizione?
Magari gli studenti trovano le parole per connotare una sensazione che hanno dentro, ma a cui non sanno dare forma.
Ora chiedete di elencare le parti di un paesaggio di montagna.
Scrivete alla lavagna quello che emerge: molto probabilmente sarà limitato alla terminologia geografica delle componenti morfologiche.
Proiettate questo brano:
“Perdersi in Val Rosandra” di Carla Reschia
Questa riserva naturale a pochi chilometri dalla città è una valle carsica che sembra uscita da un racconto di fate, completamente selvaggia, scavata da un torrente che forma cascate e pozze, un paesaggio di rocce, rupi, ghiaioni, capre selvatiche e foresta, che conserva ancora aspetti del Carso preistorico, prima che venisse addomesticato a uso umano e trasformato con le viti, i borghi e i campi.
Dal punto di vista naturalistico il paesaggio della Val Rosandra è diverso da quello del resto del Carso triestino e non si può definire nemmeno un paesaggio “alpino” anche se è una rinomata palestra di roccia. E’, piuttosto, un anticipo di Dalmazia, delle sue asperità e del suo fascino impervio. In cifre è, anche, un piccolo paradiso della biodiversità: più di 1.000 funghi, 988 piante vascolari, circa 300 licheni, 150 briofite, 100 myxomiceti, per un totale di circa 2.700 entità.
Così le chiamano i biologi, ma sono foglie, rami, fiori, e tra questi tanti animali anche piuttosto speciali, come il tritone e il raro gambero di fiume.
C’è anche un bel po’ di storia da scoprire perché ci sono diversi siti archeologici, dai resti dei “castellieri” (villaggi protostorici fortificati) a quelli dei 32 mulini che sfruttavano la forza dell’acqua per macinare il grano, all’acquedotto romano del II secolo a.C. che convogliava le acque del Rosandra- Glinščica e delle sorgenti di Crogole-Kroglje e Dolina verso Trieste. Sulle mura del castello di San Servolo-Socerb, abitato fin dai
tempi preistorici e in seguito tappa sulla via di Gerusalemme si vedono ancora i graffiti dei pellegrini e dai resti del castello medievale di Moccò che risale al 1190 si gode di una vista spettacolare sul golfo. La grotta di San Servolo è l’unica chiesa sotterranea di tutta la Slovenia, mentre la chiesetta di S.Maria di Siaris, o Marija na Pečah, in cima a una rupe sulla sinistra del torrente Rosandra è, almeno fin dal 1367, meta di pellegrini e penitenti: i bestemmiatori vi si dovevano recare a piedi nudi e implorare il perdono alla Vergine.
Le tipiche ghiacciaie (jazere) furono costruite in tempi antichi per custodire il ghiaccio invernale. Infine, grande attrazione, ci sono oltre 520 vie di arrampicata, dalle più semplici a quelle aperte dai grandi scalatori di fama mondiale come Emilio Comici”.
Domandate quanti elementi in più questo brano rispetto a quelli individuati compongono il paesaggio tra la vallata e la montagna. Riflettete se una presentazione così della montagna suscita il desiderio di muoversi all’interno di questo territorio.
Qual è il punto di passaggio tra la visione oggettiva e quella soggettiva di un luogo?
La percezione individuale ne favorisce la comprensione? Perché?
Cercate una risposta a queste domande e tenetele come guida per l’approccio ai successivi paesaggi che studierete.
Ora si comincia il viaggio. Seguiamo la narrazione.
1.“Intraprendere un viaggio che abbia come “focus” i passi alpini può essere appagante come raggiungere una cima, e certamente regala un ulteriore fattore di interesse: è qui, lungo gli itinerari dei passi, che è più facile cogliere lo spirito di un territorio e avvicinare la storia di un popolo. Nessuno più di un popolo montanaro sa che i passi costituiscono una vera e propria rete infrastrutturale, essenziale per intrattenere, in un luogo reso inospitale dalle caratteristiche geografiche, naturali e climatiche, le necessarie relazioni con il mondo. E niente più della storia dei Walser lo ha dimostrato. (…)
Per vivere e prima di tutto per sopravvivere in quelle durissime condizioni climatiche e ambientali queste popolazioni dovevano, con i mezzi tecnici di allora, disboscare, spietrare i terreni più impervi, fino ai margini dei ghiacciai, dissodare la terra per ricavarne pascolo e coltivi. Elaborare tecniche per produrre e conservare il foraggio, i cereali per il pane. Il territorio montano presentava ostacoli tremendi: torrenti devastatori, valli strette con fianchi ripidi, rocciosi, instabili, canaloni franosi che spesso diventavano le autostrade delle valanghe.
Bisognava realizzare barriere difensive contro il ghiaccio, la neve e l’acqua torrenziale, opere di regimazione e irrigazione (le “bisse”, i “ru”). Sfruttare il bosco, il legname per costruire abitazioni il più possibile confortevoli e sicure.
Le solide case (“stadel”, “rascard”) di tronchi di larice, con gli incastri a “coda di rondine”, e più tardi di pietra e legno, stavano vicine l’una all’altra per sottrarsi almeno in parte all’abbraccio poco amichevole della neve e del vento. Le abitazioni più antiche concentravano al loro interno tutte le funzioni: al piano terra casa, stalla, senza separazione o con una semplice ringhiera di legno tra uomini e animali; sugli ampi ballatoi riparati dal tetto aggettante si essiccava il fieno, in altri ambienti interni si trebbiava, si custodivano le granaglie e il pane. I “funghi” di pietra inseriti nei pilastri portanti isolavano la casa dall’umidità e impedivano le scorrerie dei roditori.
Infine sfruttare il terreno a tutte le quote significava dar vita sul territorio a un via vai stagionale di attività che richiedevano un fitto presidio di costruzioni, case, baite, depositi, e un imponente reticolo di mulattiere, strade, ponti, realizzati non solo per il semplice scavalco di un corso d’acqua nelle vicinanze di un borgo abitato ma anche in funzione dei colli che in quota collegavano trasversalmente le valli.
Ci passavano uomini e merci, traffici locali, interregionali e pefino internazionali. Tutto questo ha lasciato nei territori Walser una impronta incancellabile.
E’ stato a forza di camminare, lentamente, che la montagna mi ha fatto scoprire una delle sue caratteristiche più interessanti, quella che in territorio Walser è ancora autorevole e percepibile in una cultura diffusa: un territorio, per quanto estremo, aspro o poco accogliente, non è mai una stanza chiusa, serrata da mura invalicabili per altezza e vertiginosità, con rari pertugi blindati che solo pochissimi sanno imboccare. A ben guardare è invece una ragnatela fittissima di relazioni, una vera e propria rete faticosamente costruita e percorsa nei secoli, insieme ai semi delle piante e agli animali, da popolazioni intere che si sono adattate, organizzate, hanno resistito a condizioni di vita difficilissime, a volte o in certi periodi hanno perfino prosperato, tenendosi in contatto con il resto del mondo raggiungibile, costruendo strade, ponti, valicando passi, e sicuramente badando più a tutto questo che al miraggio dell’altezza”.
Susanna Cressati “Storia di un’avventura umana ad alta quota”
2. “Precipizi e crepacci, abeti scuri e faggi abbarbicati, speroni ricoperti di muschio, ombre fitte. Tanti alberi divelti dalla bufera di qualche anno fa, patriarchi vegetali abbattuti come soldati al fronte e vai a capire perché è toccato a uno piuttosto che all’altro. Monte aspro e selvaggio come al tempo in cui Francesco incontrò il conte Orlando, feudatario del posto,
padrone di un castello che dominava terre da stento, in cui anche i cavalli si diceva si cibassero di sassi.
Non è cambiato questo monte, anche se le vite degli uomini sono trascorse e hanno lasciato il segno, allo stesso modo dei passi che creano i sentieri. Piuttosto è cambiato giù a valle.
Quando Francesco pregava all’aperto il mondo sotto era un mare di oscurità, ma sopra la volta celeste era fulgida. Oggi le luci degli uomini si accendono ovunque, sono le stelle, casomai, che si appannano alla vista”.
“Foreste che pregano” di Paolo Ciampi
Chiedete di prendere un foglio bianco e di scrivere una frase o di disegnare una suggestione. Riformulate la domanda iniziale: “Che cos’è la montagna?”
E ascoltate tutte le risposte, commentate tutti i disegni.
Poi attaccate questi fogli alla parete. Che siano la vostra mappa di interiorità nello studio geografico.