Testo di Andrea Semplici
Ecco, mezzo secolo, cinquant’anni fa. 11 settembre.
Non posso chiedere a chi ha vent’anni oggi di ricordare questa canzone: ‘Te recuerdo Amanda/la calle mojada/corriendo a la fábrica…’.
Eppure dei giudici, laggiù a Santiago del Cile, devono essersene ricordati: e hanno condannato i militari che in quei giorni di settembre del 1973 uccisero, assieme ai suoi amici più cari, Victor Jara, il cantautore più amato che cantava il sogno di Salvador Allende e del suo paese. Cinquant’anni per un’idea di giustizia.
E io, ostinato nella memoria, ricordo piazza San Lorenzo a Firenze. Non era uno dei luoghi abituali delle manifestazioni. Non so perché fu scelta, forse perché chi lo decise aveva bisogno di una ‘differenza’. La notizia del golpe in Cile era arrivata da poche ore, già sapevamo dell’uccisione di quel presidente dal fisico rotondo, dagli occhiali spessi e il mio, il nostro dolore, quella notte, era inconsolabile. Ci tenevano stretti gli uni all’altro, la nostra innocenza era davvero finita, capimmo (lo avevamo capito già, appena adolescenti, con la bomba in piazza Fontana) che la strada futura non sarebbe stata il sogno che volevamo in quegli anni. Non ci sentimmo soli quella notte, non volevamo lasciare solo il Cile. Ma come negare il senso di impotenza. E il dolore.
Che storia grande: la mia generazione era infatuata per Ernesto Guevara, lo avevamo trasformato in una leggenda, in una icona, in un ideale di vita. Ben presto sarebbe diventato una maglietta e un gadget. L’amore vero era per Salvador Allende. Un uomo mite, pratico, testardo. Lui non sarebbe diventato un souvenir.
Molti anni dopo andai fino a Santiago solo per chiedere ad Antonio Skármeta, lo scrittore cilene de Il postino di Neruda, di raccontarmi di Allende: ‘Era un cittadino comune, non era un guerrigliero, non era profeta, non era un poeta’. È questo che ci conquistò? Un uomo tranquillo alla guida di una vera, profonda Rivoluzione. Era riuscito a conquistarci. Avevamo fiducia in lui. Era davvero la possibilità di un futuro. Una minuscola foto di Allende, da allora, è sempre stata con me.
In quel lontano viaggio in Cile, andammo a trovare anche Francisco Coloane (ringrazio sempre il dono di aver avuto la possibilità di incontrare i ‘miei’ grandi vecchi), lo scrittore dell’urlo dei mari del Sud. Un uomo altissimo, dai capelli in tempesta. Avevo visto una sua foto: fu lui, di fronte a qualche migliaio di persone impaurite, ma capaci di una passione sconfinata, a pronunciare l’orazione funebre per Pablo Neruda, il poeta che non poteva sopravvivere al suo presidente (oggi sappiano che venne assassinato). Quel gruppo di donne e uomini, al cimitero di Santiago, era accerchiato dai militari. Eppure erano lì, in piedi. Riuscirono a cantare. Come era possibile tanto coraggio? Noi l’avremmo avuto?
Ecco, mezzo secolo dall’11 settembre. In mezzo un altro 11 settembre, un altro orrore: ventidue anni fa vennero uccise 2999 persone (il numero mi stordisce nella sua precisione, ventiquattro sono ancora ‘disperse’). Era gente che arrivava da novanta paesi. Le tragedie ci dimostrano sempre che donne e uomini della Terra sono un universo.
Oggi a Santiago c’è un presidente giovane e pragmatico, Gabriel Boric, eletto, nel 2021 da un fronte ampio delle sinistre. Il suo governo naviga fra mille difficoltà, ha perso ministri, ha dovuto rinunciare a una Costituzione scritta in mesi e mesi di partecipazione popolare. E ha malamente perso le elezioni per i consiglieri che dovranno nuovamente riscrivere il testo costituzionale. Il Cile è un paese spezzato in due. La destra estrema ha ambizioni di un nuovo potere. Il vento, a Santiago, come in Europa, come nel mondo, spira nella direzione ‘sbagliata’. Sono sempre tempi pericolosi.
E allora ricordiamoci delle parole di Salvador Allende. Accanto alla Moneda, a Santiago, c’è un suo monumento. ‘Ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano’ e che ‘la ragione’ e la ‘giustizia’ saranno più resistenti della ‘forza’. Memoria, sogni, futuro.