Testo e foto di Pasquale D’Ascola.
a E.G.
In certe occasioni la lucidità lo mette alle strette; vede se stesso dal di fuori mentre critica, lui che sta viaggiando, mentre le vite sono tanto difficili. (José Saramago – Viaggio in Portogallo – Per un chicco di grano non fu Lisbona)
Colle non appare chiara da lontano; ci sono tre approcci logici da nord; uno da badia a ripoli, firenze, inadatto al praticante del tra mezz’ora ma consigliabile al tirocinante del non so ancora dove, lungo la 222 chiantigiana fino a castellina e poi giù per la rapida 429; il secondo che scorre lungo la pessima superstrada firenze-siena dal galluzzo; l’altro che dalla porta romana di firenze, esce dalla città, corre su e giù da una serie di crinali, aggettivare i quali non è indispensabile ma sì, si può ben dire che sono spettacolari, lungo la via cassia, statale 2 si diceva un tempo, quando c’era uno stato cui nel bene e nel male uno credeva di appartenere, in qualche modo, anche nel più scomodo. Colle non appare chiara dall’alto, là dove la strada cala su poggibonsi, bombardata nel ’44 al punto che pogghibonsi fu per gli alleati e per un po’, sintesi di altrimenti indescrivibile devastazione, poi sparisce, poi, quando si è ormai arrivati al cartello che annuncia, COLLE VAL D’ELSA, non la si vede. Si intravede la città bassa contemporanea, gli edifici che già nelle cianografie dei capomastri che li costruirono abdicarono invece di aspirare al ruolo di modello, di temperamento, di volontà e rappresentazione del proprio qui e adesso, in breve di appartenenza a un progetto, per servire da capanna condominiale, rifugio angusto e ostile cui sfuggire, chi avrebbe potuto poi farlo, a bordo di fiammanti mercedes, finché sono fiammanti. Certe automobili, certe marche o tipi, sono, nella fantasia di chi guarda, a volte epitome perversa, a volte diniego della propria nazionalità interiore. Se esiste.
Colle è nell’insieme divisa in partes tres. Il paese antico steso come una collana su una collina, l’allitterazione è volontaria, il paese vecchio, ai piedi di quest’ultima, con le sue ciminiere rossastre di manifatture desuete, ottocentesche; e il paese nuovo, di cui sopra. Sulla collina ci si ritrova tra le pietre e le pietre di tante età, dal medioevo fino quasi, non è lapsus quello che arriva, ai gironi nostri. Lastricati, spallette, pilastri, contrafforti, stipiti, colonne e architravi, mura e muri di tufo, mattoni bassi e rossi, pietre che non si sa come classificare a non essere geologi, pietre da costruzione e, all’improvviso, così come si adeguerebbe a una minima variazione della luce, l’occhio si adatta alla misura degli ordini architettonici antichi, alle proporzioni degli edifici, riflesso della mente e della lingua usata da chi vi pose mano. Via via che cammina per le antiche scale, chi guarda si accorge di assentarsi in un romanticismo, eh beh sì diciamolo, che stringe poco a poco le budella di chi sale in estasi, e sa poco perché, e scende malinconico e sa che lo è. Sia chiaro alla mente di chi legge che non è domenica, nemmeno una di quelle domeniche che si vorrebbe non arrivassero mai, né un sabato e che non siamo in un villaggio; è giovedì e sono passate da poco le sei di sera.
La cittadina è vuota, i negozi, pochi e spenti e sì c’è un gran silenzio, forse qui non esistono nemmeno antifurto. È vero che la cosiddetta stagione estiva è alla fine, all’occaso, ma fanno tenerezza gli insoliti turisti in coppie isolate anziché in branchi ciabattanti as usual e in cerca di fotografie da scattare. Non fai fatica a immaginarti di essere parte della pattuglia, non si può essere sicuri che si trattasse di una pattuglia né se di americani o scozzesi o indiani o australiani o francesi o neozelandesi o brasiliani o gallesi o ebrei della brigata ebraica o il che è della seconda guerra mondiale, della prima pattuglia che entrò dal cammino basso della cittadina, nello stesso o ben maggiore silenzio, osservata dagli occhi delle persiane serrate, occhi che non vogliono ma alla fine vogliono vedere e vedono nuove divise e gesti diversi, timorosi e amichevoli. Colle fu liberata il 7 di luglio del 1944, tutti dovrebbero sapere da chi e da che cosa o farebbero bene a ricordarsene.
È l’ora di cena o, che sia o non sia l’ora, pare che la quiete dei colli intorno, delle inquadrature strazianti di terra e cipressi che si aprono agli occhi nei rari respiri tra una casa e l’altra e, forse non è da escludere, dell’odore superbo di un arrosto ben addomesticato che arriva da una minuscola finestra serrata dalle sue sbarre di ferro, ricordino che fermarsi e mangiare, senza averne necessità in apparenza, è una cosa bella; fermarsi per una buona simulazione del restare, fermarsi per gustare il fermarsi. Il cibo è squisito e tanto inusuale da trasformare solide patate in un ricordo. L’ostessa è giovane e attenta e si affanna a sostenere il proprio ruolo, la propria recita fino agli abbracci finali. Poi, nel silenzio e nel vuoto ancora più profondo delle strade ti immagini quelle finestre vuote di persone con un futuro che non sia l’indomani, di giovani coppie che progettino i loro amori, private di attività che non superino la soglia della sussistenza e forse nemmeno della persistenza sufficiente a farne tesoro e memoria. Ti prende un dolore inatteso, uno scoramento, un senso di che cosa vuoi, non c’è niente da volere, tutto è stato voluto e fruito. Fine. Al fresco di alberi generici per chi guarda, alcune pensionate chiacchierano sedute su panchine di pietra, le borsette ritte sui ginocchi; dei pensionati giocano con bocce mai viste, sembrano e forse sono di tufo; il campo ha sponde ellittiche che imprimono eleganti parabole alla corsa delle bocce. Immaginando vuota l’alta casa che ti sta di fronte viene voglia, una voglia mortale, di varcarne la soglia, cercare l’interruttore della luce e spengersi e dire, eccomi. L’ultima boccia si ferma a pochi millimetri dal pallino.