Testo di Nadia Berti, foto di Isabella Mancini
Dimentichiamoci per un attimo della “grande Europa” che ha conquistato il Mondo, del nostro modello di democrazia, ritenuto un esempio da emulare e quasi intoccabile in ogni suo aspetto. Dimentichiamoci dell’idea stereotipata che abbiamo, noi eurocentrici occidentali, dell’Africa: un grande continente semi deserto e governato da dittatori, senza storia fino al colonialismo. Lasciarsi alle spalle questi pregiudizi può sembrare difficile, ma forse non lo è quanto lo sforzo di pensare che in molti Paesi subsahariani il cambiamento esiste, è tangibile, ancora immaturo per certi versi, ma ha tutta l’intenzione di farsi sentire. Giovani, numerosi, motivati e pacifici: le caratteristiche dei membri delle reti di informazione e mobilitazione che percorrono l’Africa occidentale hanno come obiettivo il risveglio dei sentimenti di unione panafricana e la presa di coscienza che il tempo dell’imitazione del colonizzatore è giunto al suo tramonto. Ogni Paese deve avere il coraggio di trovare la sua strada, senza rincorrere un modello di sviluppo inapplicabile, oltre che fallimentare sotto molti punti di vista, come lo è stato per chi lo ha creato e lo applica tutt’ora.
Nel Paese degli uomini integri, il Burkina Faso, questo movimento prende il nome di Balai Citoyen (letteralmente: scopa cittadina) e il suo motto è un invito alla partecipazione: “la nostra forza sta nel numero” (notre nombre est notre force). A guidare i partecipanti, le parole di un mito, di una figura che purtroppo non hanno potuto conoscere personalmente poiché Thomas Sankara, il “Capitano”, come lo chiamano tutti, è stato ammazzato nel lontano 1987, all’apice della sua -troppo breve- rivoluzione da politici a lui prossimi, con il sostegno di Francia e Stati Uniti (che da bravi garanti della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli, hanno sempre negato il loro coinvolgimento in questo delitto), preoccupati che il vento di rinnovamento potesse destabilizzare il loro potere in un territorio povero, ma geograficamente strategico. I fondatori del Balai Citoyen non sono uomini politici o intellettuali, ma due musicisti: Serge Bambara, in arte Smockey e Sams’K Le Jah. Attraverso i testi delle canzoni, loro e di altri artisti che hanno voluto unirsi alla causa, lanciano messaggi positivi ed animano i giovani a diventare protagonisti nel proprio Paese, consapevoli del potere della musica. La maggior parte dei partecipanti è under 30 e non poteva essere diversamente in un Paese come il Burkina Faso dove il 60% della popolazione è minorenne.
Insoddisfatti della loro generazione dormiente, abituata ad evitare dibattiti scomodi e sempre attenta ad usare le parole giuste, hanno deciso che era il momento di “spazzare via” quella che hanno ritenuto la causa principale dei loro problemi. Una generazione stanca di vedere lo stesso volto in tv da quando sono nati: una presidenza lunga 27 anni non poteva durare un solo mese di più. L’ex presidente Blaise Compaoré, considerato un grande mediatore più per la sua attitudine filo-occidentale che per le sue doti di statista è stato costretto a mettere in un cassetto l’idea di rinnovare il suo mandato (ha preteso di cambiare l’articolo 37 della Costituzione per rendere permanente il suo potere) e rintanarsi ad Abidjan, in Costa d’Avorio, dove risiede tuttora. Nonostante sui muri di Ouaga nessuno abbia pensato di cancellare scritte come “Blaise = Ebola” o “Blaise dégage!”, considerate sempre attuali, la società civile non si era resa conto fino in fondo di aver solamente sfiorato e non certo estirpato un sistema molto profondo e complesso, del quale nemmeno Compaoré era il mastro burattinaio.
L’onda di insoddisfazione verso il regime era partita da Koudougou già nel 2013, quando gruppi organizzati di studenti avevano deciso di manifestare: un anno prima dell’insurrezione del 30 ottobre, che ha innescato indirettamente e senza volerlo una bomba ad orologeria, esplosa proprio in concomitanza con i recenti attacchi terroristici. La società civile ha compreso a sue spese che decapitare un sistema corrotto non avrebbe affatto spianato la strada della democrazia, ma si trattava solo di un’illusione. Non è stato un errore di prospettiva, ma l’esasperazione verso un malgoverno che in qualche modo bisognava iniziare a sradicare, anche se che si è partiti dai rami più in alto anziché dalle radici.
Dopo gli attacchi terroristici a Bamako, in Mali, lo scorso 21 novembre, la stessa cellula di Al Quaeda in Maghreb (AQMI), sotto la guida di Mokhtar Belmokhtar ha organizzato gli attentati del 15 gennaio 2016 al bar-ristorante Le Cappuccino e all’Hotel Splendid: episodi di violenza che destabilizzano la già fragile situazione politica ed alimentano un male rimasto finora silente, sedato dalla corruzione e dall’apparente condizione di pace della dittatura compaorista. Il coperchio della pentola a pressione è saltato in aria: una rete (volutamente) invisibile di traffici illegali di armi, uomini e droga ha attraversato il Paese per almeno tre decenni, con la complicità del braccio destro dell’ex dittatore, oggi in carcere, Gilbert Dienderé. Non sono mai state trovate le prove, ma si dice sia stato proprio quest’ultimo a sporcarsi le mani del sangue di Sankara. Nel lontano 15 ottobre dell’87 gli artefici di quel delitto non potevano sapere che quella vittima, mantenendo l’integrità morale fino alla fine, avrebbe continuato ad infondere coraggio e sete di giustizia nella società civile burkinabé. Di certo, si sa che è stato proprio lui a mettere in piedi, utilizzando l’RSP (Régiment de Sécurité Présidentielle), il più ridicolo colpo di stato della storia, il 15 e 16 settembre 2015, che per quanto velocemente sia stato sedato ha lasciato dietro di sé pericolosi strascichi, esplosi proprio qualche giorno dopo gli attentati. Protagoniste, ancora una volta, le ex milizie presidenziali dell’RSP. Il loro isterismo si è manifestato il 22 gennaio con l’assalto del deposito di armi di Yimdi, nella parte ovest della capitale e nella stessa settimana si sono verificati diversi incendi di natura sospetta, che hanno polverizzato le attività commerciali nei quartieri di Tanghuin, Buens Yaare e Pissy in capitale e nel mercato centrale di Bobodioulasso.
Il vento del cambiamento e di speranza aveva soffiato per tutta la transizione, grazie alla rassicurante figura di Michel Kafando, e durante lo svolgimento di elezioni “libere, democratiche e trasparenti” che hanno portato Roch M. C. Kaboré (ex presidente dell’assemblea nazionale) a sedere sulla più ambita poltrona del Paese, il 29 dicembre scorso. Ma basta poco perché il conto alla rovescia abbia inizio, quando saltano le pedine di uno scacchiere internazionale già corroso al suo interno, calibrato sull’ingiustizia e sui favoreggiamenti: ora che la testa del sistema si è rifugiata ad Abidjan, ed il suo braccio è dietro le sbarre, sicari e trafficanti abituati alle tangenti e ai privilegi di Ouaga 2000 rischiano di rimanere a mani vuote. Il terrorismo ha violentato un Paese che aveva appena compiuto il primo passo verso la democrazia, alimentando mafie interne che è difficile tenere sotto controllo, da un lato per il loro radicamento in un territorio che va oltre a quello nazionale burkinabé, dall’altro perché sono presenti nelle grandi città come lungo le frontiere e nonostante i rinforzi delle forze dell’ordine europee, alcune zone restano scoperte.
Il Burkina è oggi un Paese imbavagliato, preso in ostaggio perché ha avuto la forza di voltare pagina e si ritrova ora a percorrere una strada in salita più accidentata del previsto. Mentre l’Europa torna a pensare a sé stessa, la sicurezza dei civili è ancora in pericolo, nelle grandi città come lungo le frontiere: l’idea di “isola di pace” ormai non regge più per la terra degli uomini integri. Un Paese che assomiglia ad una zattera che rischia di affondare ad ogni momento, presa di mira da chi cerca di trarre vantaggio dal terrore jihadista, da chi è attaccato ai privilegi della dittatura, da chi ha approfittato finora dei commerci illegali. Eppure c’è la consapevolezza della società civile, che ha saputo prendersi la responsabilità di detronizzare un dittatore, sedare un colpo di stato, seguire con speranza la transizione e votare il nuovo presidente. La gente sa che le elezioni non coincidono con la democrazia, ma sa che è proprio per questo che non bisogna abbassare la guardia. Per le strade della capitale molti amici continuano a ripetere che “se Kaboré non si rimbocca le maniche cacciamo via pure lui!”. La popolazione è cresciuta a dismisura, politicamente parlando, in questi ultimi tre anni. Per questo, la risposta agli ultimi avvenimenti, nonostante lo smarrimento iniziale, è positiva e propositiva: a Ouaga e nelle città principali, la gente si riunisce e prega per rendere omaggio alle vittime, cammina con migliaia di candele in mano davanti ai luoghi degli attentati e canta contro la paura per dimostrare che un Paese protagonista del proprio cambiamento non può tirarsi indietro, non ora. Chissà se qualcuno, in Europa, si è accorto di avere sotto gli occhi un esempio unico di integrità morale, di coraggio e di fierezza per l’intero continente africano e non solo.