testo e fotografie di Sydney Vicidomini
Di Ekaterinburg, più che il costruttivismo architettonico e il Dom Ipat’ev, dove furono fucilati gli Zar, ricordo il venticello fresco in una soleggiata giornata di agosto, l’odore di pane fresco dalla porta di un negozio e quello di erbe selvatiche sulle lavki della frutta ad un incrocio. La mano di di Vova era liscia, tiepida e paffuta. Il suo calore e la sua voce erano arrivati da destra, mi aveva chiesto se stavo bene, se mi creava troppo disagio stare così bendata. Mi indicò come tenergli la mano e il braccio. La mia testa gli arrivava alla spalla e mi potevo fidare di lui. Vova il buio lo conosceva da vent’anni. Il tour di Ekaterinburg al buio è una sua invenzione. Kirill è il suo aiutante, ed era il nostro couchsurfer. Io e Andrey ci offrimmo di collaborare: Vova mi avrebbe accompagnata gratis in cambio di pubblicità sul mio blog; Andrey avrebbe filmato e fotografato; Kirill, con l’aiuto di Andrey, si sarebbe occupato della nostra sicurezza: mantenendosi a qualche metro di distanza per non farsi sentire e non darci indicazioni, sarebbero corsi in nostro aiuto soltanto nel caso in cui avessimo attraversato con il rosso, fossimo andati a sbattere o avessimo sbagliato strada. Dalla benda non si vede niente.
La visita comincia alla biblioteca per non vedenti di Ekaterinburg. Odora di chiuso, di moquette e di libri.
È tutto nero, anche il gigantesco volume di Guerra e Pace in braille che mi fruscia sotto le dita. Il buio è come la luce svuotata del colore, come un disegno a matita non colorato, come frugare in un pacco a sorpresa non con una mano, ma tutti interi. Il buio è come stare in un paese del quale non conosci la lingua, pur continuando a capire gli esseri umani; è una dimensione in cui niente è tridimensionale fin quando non ci hai girato intorno. Eppure credo che le palline nella vasca in cui mi fa tuffare Vova, nella camera per i bambini, siano gialle, rosse e blu. “Io non ho idea di che cosa significhi giallo, rosso, e blu,” mi racconta Vova. I marciapiedi di Ekaterinburg sono larghi, ma un po’ scoscesi, così che non ti accorgi, a un certo punto, che stai andando verso la corsia delle macchine, e non dritto. Solo Vova lo sa, perché mentre ti porta sotto il braccio continua a ticchettare con il bastone a destra e a sinistra, tenendo il tempo della passeggiata. Quando Vova vuole attraversare, tu non lo sai, non sai nemmeno come fa a sapere che è diventato rosso per le macchine, visto che il semaforo non suona. Lui dice che sente che si sono fermate. Io sono troppo distratta: sto sentendo sotto i piedi il punto in cui finisce la striscia gialla per indicare il limite del marciapiede ai non vedenti. In metropolitana so che siamo scesi perché me l’ha detto lui, ma non capirò mai come ha fatto a trovarla. Conosce il numero dei gradini a memoria e quanti passi ci vogliono dalla prima scala alla cassa, dalla cassa alle scale mobili. Sa già quanto costa il biglietto e mi chiede di preparare i soldi prima, ma al buio mi accorgo di non saper distinguere una moneta da dieci da una da cinque. Vova mi mette fretta, dice che dietro di noi si è fatta la fila, ma io non la vedo. Perciò dò alla cassiera quello che ho tra le mani e mi fido sul resto. Vova sa anche quando le scale mobili stanno per finire e mi chiede di fare un passo in avanti al suo tre. Uno, due… tre! Non ho paura di cadere sui binari, perché Vova mi trascina sicuro lungo la piattaforma, anche se mi porta a sbattere in una signora alta forse poco più di me. Sento che il treno è arrivato, ma solo Vova sa con precisione dov’è la porta, e solo dopo che siamo entrati mi si sveglia un altro senso e mi accorgo che il posto vicino alla sbarra che sto tenendo con le mani deve essere vuoto, perché non ho urtato ginocchia e non sento respiri all’altezza della pancia. Mi abbasso con discrezione per testare la mia ipotesi con le mani e scopro due posti liberi, che indico a Vova: ci sediamo. Vova parla con il suo telefono, parla veloce il telefono di Vova; gli dice di aprire i messaggi, di chiamare, risponde alle sue domande, legge le cose al posto suo. Non sappiamo di che colore sia la metropolitana, non sappiamo più nemmeno cosa sia il colore, ma il marmo delle pareti è granito duro e freddo recuperato in questa stessa regione. Sento che Vova sorride, mentre me lo mostra. So che le scale sono finite e che stiamo uscendo perché sento l’odore della strada, lo squillare delle macchine e il sole che batte. “La luce!” dico a Vova. “Io non vedo la luce,” mi risponde. “Non l’hai mai vista?” “Forse, da bambino, ma ero molto piccolo,” mi risponde. “Come la descriveresti?” “La luce è calore di varia intensità. Hai sentito, mentre uscivamo, un calore più intenso sulla tua faccia?” “Sì. È luce?” “È l’effetto che produce. Forse è lo stesso che tu senti in forma di calore, ma con l’aggiunta che colora le cose.” “Di che colore?” mi chiede. “In questo momento la luce è sicuramente bianca e gialla, ma dietro le palpebre la vedo e la sento rosso sangue.” Segue un silenzio. Chissà come sono questi colori nella mente nera di Vova. “Come se pulsasse.” Vova vuole portarmi a sentire le statue sulla passeggiata principale della città, ulitsa Vaynera, ma a un certo punto si perde, va in tondo, mi fa provare il suo bastone e io sto per sfasciare un mercedes in cerca di una via d’uscita. Una voce femminile, di forse cinquant’anni, con note di tè e biscotti e di foulard di seta, ci viene in soccorso arrivando da dietro alla mia spalla e, tenendosi sulla mia destra, un paio di passi davanti a me, ci guida, senza chiedere nemmeno per un momento come mai io sia bendata, ma chiede con insistenza dove stiamo andando esattamente. A Vova non va di essere accompagnato per tutto il percorso e la signora non sa di essere capitata nel mirino di Andrey, ma quando Vova ripete, più volte, che abbiamo capito le indicazioni e non abbiamo più bisogno di aiuto, la signora si allontana, poi torna, insiste. Vova fatica un po’ ad allontanarla e a concludere il mio esperimento come voleva. La signora, forse, non immagina che Vova abbia conosciuto il mondo quasi soltanto al buio e Vova ci tiene a precisarmi che, spesso, le persone credono di rendersi molto utili con i loro suggerimenti di troppo, ma in realtà fanno solo danno, perché loro non sanno come si vede dall’altro lato. Le statue che Vova voleva mostrarmi sono sicuramente più grandi di dove io posso arrivare con le mani. La sua preferita è quella degli innamorati: ne accarezziamo insieme le mani di metallo freddo unite su una ringhiera.
A ora di pranzo Vova mi porta in una pirozhnaja in stile sovietico, ma io non so come faccia a sapere che è in stile sovietico. So solo che è seduto accanto a me, mi consiglia cosa prendere e mi invita a infilare le dita dappertutto, a toccare le posate, i tovaglioli, il tavolo, il cibo. Poi mi chiede di togliermi la benda. Mi si è incastrata tra i capelli. Vova ha detto che potrebbero farmi male gli occhi, perciò, anche se ho cominciato a vedere più rosso non appena l’ho tolta, non apro subito gli occhi. Quando li apro, il piccolo buco della mia visione si allarga velocemente con i margini di buio bruciati via dal biancore che entra dalla vetrina posta proprio davanti a me e nel buco che si allarga in millisecondi precipitano, appannati, Kirill e Andrey che mi stanno sorridendo, il tavolo di legno scuro, i piatti di porcellana, il brillio delle forchette, la strada dietro la vetrina, la mia risata perché tutto mi sembra improvvisamente così colorato, così piccolo rispetto a come lo sentivo prima, al buio. Solo dopo un po’ mi giro, e mi accorgo che quello seduto vicino a me è Vova. Ha le spalle grandi proprio come avevo sentito, e un po’ di pancetta. Indossa una camicia bianca e celeste a quadroni. La pelle è chiara, i capelli sono castani, corti, gli occhi sono azzurri e sembrano vedere, anche se non si volta a guardarmi. “Grazie,” gli dico, e mentre lo faccio mi accorgo che gli sto accarezzando una spalla a lungo, anche se lo conosco appena, perché forse è l’unico modo in cui posso guardarlo negli occhi e fargli sapere che conoscere Ekaterinburg al buio insieme a lui è stato anche meglio che vederla coi miei occhi.
Sydney Vicidomini insegna italiano, traduce, scrive, e fa altre cose a sorpresa. Durante la sua lunga permanenza in Russia ha creato il blog Russaliana – la Russia raccontata dagli italiani. Ekaterinburg è stata la prima tappa del viaggio in Transiberiana che ha documentato nella serie di video “Transiberiana #7×3”.
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Vova, ovvero Vladimir Vaskevich, è insegnante di matematica per non vedenti. Ha viaggiato per la Russia in autostop ed è stato in diversi paesi europei. Partecipa, quando ne ha l’opportunità, a programmi televisivi locali e nazionali e a diverse iniziative per far conoscere al mondo le possibilità dei non vedenti. Il suo progetto di escursioni al buio per Ekaterinburg si chiama Feel Russia.