Testo di Claudio Simbolotti , foto di Giuliano GuidaCorcinquino-1

Dopo la piacevole sosta nella bella Locanda di Stefano riprendiamo il nostro viaggio alla scoperta dei borghi dell’Appennino. Li vicino sorge infatti Rocchetta, la cui parte alta o vecchia che dir si voglia è abbandonata da anni. La cittadina nuova si trova un paio di chilometri in basso, ma diversi edifici ancora abitati sono stati costruiti praticamente a ridosso dell’antico borgo. L’impressione immediata è che ci troviamo in un luogo appena distrutto, crollato sotto i colpi di un forte terremoto. La chiesa è tagliata a metà, gli edifici mostrano notevoli crepe, a terra ancora pezzi di calcinacci ed erbacce che escono dalle abitazioni. È solo l’inizio, fatta una svolta parte uno stretto sentiero in pietra ormai coperto da una folta vegetazione, è la strada che conduce al vecchio borgo che sorgeva, sulla roccia, a picco sul monte. L’antico viottolo in parte è ancora percorribile, come mostrano le “impronte” lasciate sull’erba alta, ci facciamo coraggio e ci avventuriamo in quello che sembra un set cinematografico. Macerie e rovine di quel che resta delle case, piani mezzi crollati, balconcini inclinati e un’atmosfera di oscuro e misterioso. Superiamo diversi ostacoli, ci addentriamo in qualche rudere, osserviamo in silenzio mentre Giuliano immortala tutto con la macchina fotografica. Decidiamo di non andare oltre, non sappiamo se il viottolo prosegue o se termina nel nulla, torniamo indietro incrociando un altro curioso che si addentra alla scoperta del borgo abbandonato di Rocchetta Alta.

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Ripartiamo in direzione nord, prima di varcare il confine si sosta nella piccola e graziosa Pizzone, minuscolo nucleo medievale i cui stretti vicoletti in pietra sono abbelliti da numerosi fiori. Un ragazzo ed un signore, con un carretto pieno di legna, provvedono a rifornire le abitazioni di combustibile per il riscaldamento invernale. “Sono circa 200 gli abitanti, molte case sono state comprate da napoletani che ci vengono ogni tanto, noi abbiamo un’azienda agricola poco più a monte e ci occupiamo anche di fare i boscaioli e di provvedere a rifornirli di legna per i camini”. Non sappiamo se è uno scherzo del fato o se Carolina aveva voglia di compagnia, fatto sta che parcheggiata vicino a lei troviamo un’altra cinquecento, un modello F targato Isernia. Le due si portano rispetto, si osservano e sembrano quasi salutarsi mentre filiamo via.

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Scontrone, arroccato a circa 1000 metri ci colpisce soprattutto per gli splendidi murales che abbelliscono le abitazioni. Possiamo ammirare rappresentazioni della vita tradizionale, il lavoro nei campi o dedicate agli emigranti, un tocco di colore e vivacità che apprezziamo notevolmente mentre curiosiamo nelle viuzze, con graziose case a pietra, e pensando con orgoglio al nostro quartiere, che da meno di un anno, si è riempito di colore e di magnifici murales e poesie realizzate da famosi street artistes e poeti di strada.

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La bellezza del Parco Nazionale d’Abruzzo è rinomata, inutile starne qui a cantare le lodi, e tra l’altro proprio questa strada l’ho percorsa nel mio viaggio in bicicletta di alcuni anni fa che mi portò dalle montagne abruzzesi alla costa Jonica della Basilicata. Percorriamo questa incantevole strada che ci offre scorci indimenticabili e poi compare arroccata sull’omonimo lago la medievale Barrea. Cittadina incantevole con un affascinante piccolo centro storico, alcune attività commerciali e i turisti sembrano non mancare, eppure vediamo un po’ ovunque cartelli di fittasi e vendesi che ci lasciano perplessi. Gli abitanti sono scesi a circa 800, ma possibile che anche un posto che ha delle enormi potenzialità vive una crisi del genere? È questa la domanda che ci poniamo, e capiamo sempre più che il viaggio che stiamo facendo e che ormai volge quasi al termine ci ha mostrato diversi esempi di uomini e donne che resistono fieramente con orgoglio e difficoltà ad una fuga verso le metropoli, che non si arrendono ed anzi indicano una direzione nel recupero delle tradizioni e dello sviluppo locale. Carolina continua a sorprenderci e a mietere vittime, come ci avviciniamo a lei pronti a ripartire ecco che compare un signore che ci chiede se siamo interessati a venderla, a Paolo quasi gli schizzano gli occhi di fuori, al primo rifiuto il tipo incalza e rilancia la posta, non demorde ed arriva fino ad offrirci quattromila euro, ma Paolo è inamovibile, non cede alle lusinghe dimostrando tutto il suo amore per la cara Carolina.

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Costeggiamo l’azzurro lago artificiale di Barrea per poi salire alla volta di Civitella Alfedena, anch’essa di origine medievale che sorge dal lato posto della precedente. Borghetto più piccolo, arroccato con strette viuzze e casa addossate, conta ormai solo 200 anime e pochissime attività. “Ormai è duro resistere ed andare avanti” ci confessano degli abitanti. Da qui però partono alcuni sentieri escursionistici e soprattutto è attraversata dal regio tratturo Pescasseroli-Candela. I tratturi sono gli antichi percorsi compiuti dai pastori per effettuare la transumanza cioè per trasferire con cadenza stagionale mandrie e greggi da un pascolo all’altro e nello specifico dalle montagne abruzzesi ai pascoli pugliese dove far trascorrere il periodo invernale per poi tornare a casa nei mesi estivi. Un lampo ci attraversa la testa, chissà, potrebbe essere un’idea elettrizzante, ci guardiamo con Giuliano consapevoli che forse una nuova avventura potrebbe vederci solcare queste storiche vie.

Dopo la salita a passo Godi di cui Carolina soffre le eccessive pendenze facciamo tappa nel famoso borgo di Scanno. Per noi è un paese abbastanza conosciuto e sicuramente non ha bisogno di presentazioni. Negli anni ottanta aveva anche assunto a una certa fama, ne sono prova fra l’altro le innumerevoli immagini scattate da illustri fotografi. Entrando nel bar della piazza siamo infatti attratti da una parete completamente ricoperta da immagini datate e il barista, che trasmette quell’aria tipica di colui che ne sa molte, ci racconta brevemente qualche storia illustrandoci le foto affisse.

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Antonella è la simpaticissima e socievole gestrice del bb La casa dei nonni. Incredibilmente quella che doveva essere una veloce conversazione di rito si tramuta in una lunga e piacevole chiacchierata, sembra quasi che sia stato il destino a portarci qui. Antonella incarna in se praticamente la storia di Scanno e non esita a parlarcene. Il nonno materno Ettore Pagliari fu un famoso artigiano ebanista locale e, proprio dove siamo ora, aprì una trattoria e negozio di prodotti tipici che per quasi settant’anni rappresentava una tappa obbligata per chi sceglieva il borgo per le vacanze. Il centenario nonno Ettore è stato immortalato da grandi fotografi come Giacomelli e Scianna e nella casa campeggiano ancora molte di queste famose fotografie. Giuliano ascolta ed ammirare le immagini, autori che conosce benissimo e a cui di certo si ispira, poi come colto da un colpo di fulmine esclama “ma si certo!” , non ha faticato molto a riconoscerne alcune. Anche Alfredo Gentile, il nonno paterno, può vantare un passato illustre che Antonella subito ci ricorda, “fu un artista, un pittore, era un grande affrescatore e molti sono i suoi quadri ad olio, con soggetti vari. I suoi dipinti si trovano non solo a Villalago, come nella loggia dell’eremo di San Domenico ma anche nella chiesa parrocchiale di Castrovalva”. Che storia! Con Antonella potremmo parlare per ore, non solo del suo paese ma anche di viaggi, essendo anche lei una viaggiatrice, gli raccontiamo dell’esperienza dello scorso anno a piedi sulla ferrovia pedemontana e di possibili progetti futuri.

Scanno è veramente un borgo grazioso, con stradine e scalette, in uno scenario di pietra e cielo che offre una miriadi di scorci interessanti che Giuliano non esita a fotografare. Magari in cuor suo sogno anche lui di essere annoverato fra i grandi maestri del calibro di Mario Giacomelli, Cartier-Bresson e Hilde Lotz Bauer, Ferdinando Scianna e Gianni Berengo Gardin che nel corso degli anni hanno immortalato la vita e gli edifici di questo luogo.

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Frattura, è una minuscola frazione, la strada sale fin quasi alla cresta, ai primi caseggiati un vecchio e sbiadito cartello indica una svolta a sinistra, la stradini prima asfaltata e poi sterrata si dipana su una piana e costeggia il cimitero. Fermiamo Carolina per evitare danni alla nostra amata e proseguiamo a piedi per il chilometro che ci manca. Riusciamo a scorgere, fra la folta vegetazione su un piccolo dosso che domina il punto, resti di antiche costruzioni, la strada prosegue fiancheggiando completamente questa altura. Stupore, meraviglia, fascino, non lo so mi sembra quasi di essere entrato in un altro luogo ed il contrasto è enorme. Un’enorme piazza su cui è cresciuto una corta e piacevole erbetta che copre i ciottoli, in fondo un ulivo secolare, un’antica fontana, tavoloni e panche di legno coperte da una veranda, alle loro spalle si apre il borgo fantasma. Sembra un angolo paradisiaco e probabilmente potrebbe anche diventarlo ma cent’anni fa fu invece un inferno. Era il 13 gennaio 1915 quando il terremoto della Marsica causò la distruzione di Frattura, frazione del comune di Scanno. Quel giorno, alle 8 circa del mattino, la terra tremò e nel sorgere dell’alba persero la vita oltre 160 persone (quasi l’intera popolazione del villaggio), principalmente donne e bambini. Gli uomini, in quel periodo, erano emigrati negli Stati Uniti e in Puglia per lavoro o in cerca di miglior sorte. Da allora Frattura vecchia è rimasta fantasma.

Nonostante 1210 m di altezza quello che subito ti colpisce è l’ottima posizione, con una esposizione perfetta al sole che riscalda e rende piacevole la sosta e l’intelligente sviluppo urbanistico su questa sorta di piana. Qualche edificio è stato ristrutturato, sono i più vicini alla piazza e in posizione periferica rispetto al cuore del vecchio borgo, questa è una zona agibile, ci sono degli orti curati e ben tre autovetture. Incontro una signora, che è ben disposta a raccontare mentre il marito prosegue il lavoro nel loro giardino. “Questa è la mia casa, in questa parte ci sono circa 10 abitazioni in ottime condizioni, siamo una ventina di persone, ci veniamo spesso soprattutto con la bella stagione ma ormai qui non ci vive nessuno. Fino agli anni cinquanta qualcuno ha resistito ma poi è diventato impossibile abitarci, tutti gli altri furono sfollati ed alloggiati per circa venti anni in una baraccopoli creata dove ora c’è il cimitero e nel 1938-39 trasferiti nel nuovo abitato”. Prosegue poi “ mia mamma, nata nel 1907, è stata estratta viva dalle macerie ed io sono nata nel paese nuovo. Adesso qui vedete tutto curato, pulito e sistemato ma siamo noi pochi abitanti a farcene carico, purtroppo le istituzioni non fanno nulla, non investono, non vedono il potenziale di questo luogo. Vedi quella bella fontana? L’hanno rimessa a posto l’anno scorso tre di noi”.

Raggiungo Paoletto e Giuliano, si sono già addentrati alla scoperta del paese che sembra bloccato in un incantesimo in cui il tempo si è fermato 100 anni fa. Vicoli deserti e case silenziose con al loro interno ancora i pentolami utilizzati e lasciati in tutta fretta immediatamente dopo la tragedia, fermi come per magia alla vita quotidiana di allora. Il borgo sembra fosse stato abbastanza grande, la parte alta è completamente crollata, alcune case sono aperte ed entriamo a scattare un’istantanea di cento anni fa. Ci sono credenze e caminetti, travi di legno del soffitto ricurve o staccate, pavimenti rialzati e crollati, addirittura delle celle per la produzione di miele. E poi la natura inesorabile ha ripreso il suo corso dando vita a delle opere d’arte che vedono alberi cresciuti dentro le crepe dei muri o fra le pietre, contorcendosi intorno ai balconcini o sopra i tetti.

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Seduti sotto la bella veranda contemplando il panorama ed il secolare ulivo ci chiediamo chi e perché l’abbia costruita, scrutiamo l’orizzonte dicendoci che è proprio è un bel posto, vediamo i sentieri del CAI che si inerpicano sui monti, osserviamo l’edificio alle nostre spalle pensando che una bella locanda con un bed and breakfast ci starebbe proprio bene. Carolina ci reclama, sono ore che l’abbiamo lasciata sola sotto un caldo sole.

Procediamo in scioltezza costeggiando la panoramica SP 479 stretta fra il fiume e la roccia e che da vita alle incantevoli Gole del Sagittario poi una deviazione per raggiungere Castrovalva arroccata su uno sperone di roccia come un nido di aquile e dove si gode una pace assoluta. Poi via di corsa, Anversa degli Abruzzi, Cocullo, Goriano Sicoli, le asprezza dell’Appennino ritornano sul nostro itinerario, le immensità di quei monti ci si pongono ancora davanti. Siamo nel Parco del Sirente-Velino, altra bella strada panoramica, dominata da ciclisti e centauri, noi ci sentiamo più vicini a loro che a degli automobilisti. Carolina deve affrontare ancora un passo di montagna, stavolta lo svalicamento è in galleria. I deboli fari sembrano illuminare una grossa sagoma, poi degli occhi, riduciamo ancor più la già lenta velocità, avanziamo preoccupati e sconcertati. Una mandria di bovini ha praticamente invaso tutta la carreggiata, probabilmente rifugiatasi qui per alleviare il caldo torrido. Procediamo con cautela mentre un grosso toro ci osserva, sembriamo una formica al suo cospetto, speriamo non voglia caricarci, appena superati diamo tutto gas. Ci è andata bene ma siamo impensieriti che qualcuno giungendo a velocità non faccia in tempo a rendersi conto del rischio, ma chissà se quei motociclisti fermi all’imbocco ne abbiano già dato notizia. Maciniamo chilometri, attraversiamo Ovindoli, Rovere e Rocca di Mezzo, siamo oramai all’ultima sosta notturna.

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C’è poca voglia di parlare ed anche Carolina fa le beffe, chissà che pure lei non voglia terminare questo viaggio fra i borghi dell’Appennino. Imbocchiamo la consolare romana Tiburtina Valeria che ci condurrà dritti dritti a casa. Ad Avezzano incredibilmente perdiamo il percorso e ci perdiamo tornando a salire sui monti, che sia un segnale di Carolina che rifugge dal ritorno?

A Tivoli succede quello che abbiamo temuto per tutto il viaggio, proprio davanti all’ospedale e in salita e sotto una pioggia battente, la nostra cara signorina decide di non volerne più sapere. Si spegne misteriosamente e non riparte. Spingiamo, fradici, Carolina al riparo e cerchiamo di capirci qualcosa. Qualche chiamata poi apriamo il motore, controlliamo l’impianto elettrico, maneggiamo un po’ fra candele e spinterogeno e senza neanche sapere il perché sentiamo il rombo uscire dai cilindri. Siamo di nuovo in marcia. Ecco l’Urbe, traffico, palazzoni, autovetture ovunque, sciami di persona, e si, siamo tornati a casa ma già ci mancano la pace e tranquillità dei monti.

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