Testo e foto di Francesco Sandri
Le ruote scorrono veloci tra le strade della città. A tratti sembrano tagliare l’asfalto, lasciando una scia d’onda come una barca a vela. In certi momenti invece è come se galleggiassero pochi centimetri sopra la carreggiata, sfiorandola appena al loro passaggio, non smuovendone nemmeno i sassolini. Leggera, la bicicletta punta verso nord.
Queste vie le ho percorse migliaia di volte, quasi ogni giorno. Le conosco una a una. Le strade, reticolo a maglie fitte che imprigiona i palazzi, sono quelle di sempre. I copertoni che le accarezzano anche. Perfino le gambe che spingono sui pedali sono le stesse. Eppure oggi qualcosa è diverso. Oggi non è semplice spostamento. Oggi è viaggio.
Copenhagen non è più il punto che racchiude in un circuito chiuso partenze e arrivi del traslarsi quotidiano. Diventa inizio, diventa l’entità “da” cui mi muovo; non “in” cui mi muovo. Basta questo piccolo cambio a fare la differenza. Consonante per vocale, vocale per consonante. Due lettere al posto di altre due e mi posso di nuovo sentire estraneo alla città, invece che una sua parte. Acquisto la libertà del viaggiatore.
E insieme a me cambia anche la natura della mia bicicletta. Da mezzo di fortuna per le consegne a domicilio passa a essere cavallo di battaglia. Certo, a vederla così sembra voler sfidare le leggi della gravità, con quel baricentro estremamente alto conferitole dalla cassetta in plastica montata appena dietro il sellino, ma non sembra dispiaciuta della sua nuova configurazione. Tenda, pentole, sacchi a pelo; il fedele destriero è sellato e pronto per l’avventura.
Imbocco la pista ciclabile numero 9: sottile striscia che ricalca la costa ovest dello Sjælland, isola più grande del regno di Danimarca. Anche se non è questo il significato del suo nome, non posso evitare che, pronunciandolo nella mia mente, risuoni come “sea land”, la terra-mare. I chilometri che seguono mi suggeriscono che non ho del tutto torto.
I gabbiani, le alghe, la sabbia, i canneti e il sole. Le acque dello stretto dell’Øresund sembrano permeare profondamente la costa che si stende tra Copenhagen e Helsingør. Man mano che ci si allontana dalla metropoli si cominciano a vedere le prime case con i tetti in canna. Come scafi capovolti di barche tirate a secco, brillano sotto i raggi in tutta la loro essenza salmastra. Le cime inquiete, agitate dalla brezza, sbattono contro gli alberi delle barche a vela in un tintinnio costante che ritma lo scorrere della giornata e quello dei pedali. Increspata quanto basta, la superficie del mare ne rimescola i colori intensi, restituendo all’occhio un mosaico di acque limpide, tese tra il turchese e il lapislazzuli. I gabbiani cantano gioiosi all’arrivo della bella stagione. L’aria carica di salsedine ricorda quanto sia sottile la linea che divide terra e mare, quanto i suoi contorni siano sfumati, quanto intimamente questi due mondi convivano.
E poi il vento. Cristallino, freddo e testardo. Per sua natura in queste terre del nord, inevitabilmente soffia ostinato e contrario alla direzione di pedalata. Sibila tra i muri delle case. Alza turbini di sabbia. Stende in aria le bandiere danesi che punteggiano di rosso i paesini di passaggio. Ogni tanto è così forte che sembra non voler entrare nei polmoni e mi costringe a soste prolungate, solo per farmi accorgere un attimo dopo che sul ciglio della strada stanno iniziando a fiorire crochi e bucaneve, indicando una primavera più vicina di quanto sembri.
Tra onde, fiori e boschi dalla pelliccia invernale, le ruote della bicicletta mi portano fino alla folkehøjskole di Krogerup. Circondata da vecchie querce monumentali coi tronchi contorti, è uno dei circa 70 “licei popolari” disseminati per la Danimarca. Concetto interessante quello delle højskole. Nate a metà Ottocento come opportunità di apprendimento per le classi meno avvantaggiate, in netto contrasto con l’elitismo delle università, oggi sono delle isole di pace in cui i giovani adulti possono dedicare alcuni mesi a immergersi nelle proprie passioni o a scoprirne di nuove. L’obiettivo è una formazione olistica e personalizzata dell’individuo, che gli permetta di partecipare costruttivamente alla vita della società. Il tutto tra ghiande, campi arati di fresco e turbini corvi che si gettano dietro ai trattori nella speranza di scovare qualche insetto.
Mi fermerei volentieri per un corso di musica, permacultura, filosofia o politica, ma il vento soffia ancora da nord e mi indica che in quella direzione devo ripartire. Seguo i pascoli costieri fino ad arrivare a Helsingør, il punto in cui la Danimarca sembra baciare la Svezia. La terra della penisola scandinava è così vicina che pare di poterne toccare le foreste e le scogliere con un dito. È da lì che inizia a stendersi il vero grande nord europeo; quello dei fiordi, dei larici, dei ghiacciai e dei troll. Helsingør, per conto suo, si presenta con quella lieve atmosfera di festa che permea le cittadine affacciate sul mare nelle domeniche di sole. Le sue case dai colori smaglianti sembrano vestite di tutto punto per l’occasione. L’aria è frizzante e profuma di caffè.
Dopo Helsingør la costa svolta bruscamente a ponente. Lascio correre il mio sguardo sulle onde frastagliate di quello che ora si chiama Kattegat. Osservo il mare, lo ascolto, lo ringrazio. Poi lo lascio scomparire dietro una fila di pini silvestri e mi getto a capofitto nel regno rurale. Sarà merito anche del vento che ora soffia alle spalle, ma il paesaggio mi sembra estremamente dolce.
Eppure per mesi mi sono scontrato duramente con le campagne danesi. I miei occhi abituati alle Alpi le vedevano piatte, noiose e monotone. Così monotone che, ogni volta che le attraversavo, cercavo di fuggirne lontano con la fantasia, trasformando quel boschetto là in fondo in un angolo di Bosnia o cambiando questa collina ondulata per un fazzoletto di terra nel Chianti. Oggi invece per la prima volta splendono di una bellezza tutta loro. Semplice, verdeggiante. Abbastanza silenziosa da lasciare come unici protagonisti del panorama uditivo il mio respiro affannato e la catena poco oliata.
Il colpo di grazia nel processo di redenzione della Danimarca agricola mi viene inferto da un piccolo e inaspettato spaccio di verdure. È minuscolo a bordo strada. Cavolfiori sistemati con cura nelle ceste, prezzi scritti con bella grafia, un frigo pieno di uova, profumo di terra. Nel mezzo di questa natura morta, una cassetta metallica con un foro per le monete. Nessuno a sorvegliare: funziona tutto con la fiducia. L’acquirente verserà nella cassetta quanto deve e ringrazierà mentalmente le mani che hanno cresciuto quelle verdure nel clima inclemente dell’inverno. Poi tornerà sulla sua strada. Seguo alla lettera il procedimento. Mi si allarga un sorriso nel veder spuntare oasi di fiducia in questi tempi di paura e diffidenza. Torno sulla mia strada.
L’orizzonte ondulato mi accompagna fino a sera, quando i copertoni della bicicletta cominciano a farsi stanchi e pesanti e il vento sembra appisolarsi. È il momento di posare i bagagli sulle foglie secche dei faggi e gli occhi sulla superficie liscia dell’Esrum Sø. Un filo di fumo si alza dal bordo del lago. Le scintille salgono veloci e portano lo sguardo a seguirle verso l’alto. Danzano nell’aria fredda. Lassù, dove vanno a spegnersi, lasciano il posto alle stelle, che come decorazioni natalizie brillano tra le chiome spoglie degli alberi. Sento la città lontana anni luce, ancora più estranea, e per un attimo penso che potrei vivere qua per sempre. Si, proprio qui, con la mia piccola tenda aperta sulle rive di un lago, sotto una coperta di stelle, nel cuore salmastro della terra-mare danese.