Testo e foto di Francesca Liani
Delhi mi accoglie all’alba di un giorno di dicembre. Sono qui per lavoro, ma il lavoro non è una gabbia. Ovunque porti con me gli occhi, il gusto della scoperta e la capacità di stupore, faccio tesoro di questi miei doni. Il resto è sentire, osservare, fotografare. Parafrasando una massima zen, lascio che siano gli altri decidere cosa io stia facendo: se lavorare o giocare, sognare o vivere. In fondo mi sento sempre un po’ in viaggio, perché la vita lo è. Viaggiare è una continua scoperta, di sé e dell’altrove in se. E non c’è più altrove dell’India. Già il primo impatto evoca atmosfere mistiche, odori di incenso, suoni di sitar, tintinnii di bracciali, antiche leggende. Affiorano dalla memoria i versi di Tagore “Questa mattina ascolta come il cielo, l’aria, la luce per te cantano a gran voce. Apri tutte le porte, o animo, e spegni le luci della notte”. Il suo canto ispirato guida il mio sguardo e mi invita a cogliere la grandezza nelle piccole cose. Intanto il taxi mi porta nel lussuoso hotel fuori del quale la vita inizia a pulsare. Una vacca smunta attraversa la strada, un bambino gioca con una ruota di gomma mentre un uomo accende la motoretta accanto ad una baracca di lamiera. Dentro l’hotel uomini d’affari, solerti concierge, tavole imbandite. Sono in uno dei tanti atolli in questo oceano umano che è l’India, dove il lusso dorme accanto allo squallore come qualcosa di diverso eppure uguale. Sono in una enclave, lontana dai rumori, dallo smog, dalla frenesia e dal torpore della città. Abbandono presto quest’atollo distante e mi lascio andare al flusso. Prendo un tuk tuk. Dopo poco l’atollo è già un ricordo e sono immersa in un traffico delirante e surreale. Siedo spettatrice dinnanzi allo spettacolo dei clacson, dei bambini in divisa che vanno a scuola, dei motorini su cui viaggiano intere famiglie, dei bus stracolmi. Anche il caos ha il suo fascino se lo si osserva con distacco. E io non ho fretta: prima tappa il Red Fort. Il colore rosso delle mura mi riporta alla mente la terra di Marrakech stagliata su cieli blu cobalto. Fotografo la gente, i sorrisi, le donne con i sari. Tutto convive in una sinestesia di colori, sapori, rumori, angoli decadenti e sublime bellezza di architetture fiabesche. Giungo a Old Delhi che visito su un piccolo carretto trainato da un uomo. E lì il mio sguardo si perde nel labirinto di vicoli tra bazar, edifici fatiscenti, grovigli di cavi della luce, tra artigiani, mercanti, avventori di bar. È un caos vitale, un altrove ad un passo eppure distante nel suo anacronismo. È un tempo altro che non si fa datare. Mi concedo una pausa prima di visitare la moschea di Fatehpuri Masjid. Dopo un tè caldo riprendo il cammino. E mi immergo nella zona più istituzionale della città con le ambasciate, il parlamento, il palazzo presidenziale, l’Indian Gate. Le parole di Gandhi mi accarezzano i pensieri come un refolo “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. S’è fatta sera. L’ombra mi avvolge. Cerco un ristorante dignitoso e pulito per ritemprarmi. Da domani sarò in fiera, ma ogni sera tornerò ad appartenere a questa città a perdermi nel suo caos e nelle sue contraddizioni. E nel weekend infine mi attende il viaggio in direzione del Rajasthan: Agra, il Taj Mahal, Fatehpur Sikri e Jaipur le mie mete. Torno nel mio albergo-atollo. Mi sento pregna come un frutto maturo, ricca del mio sentire. Benedico gli occhi per ciò che mi fanno vedere e l’immaginazione che mi fa andare oltre ciò che vedo. Mi addormento. Sogno edifici rosa, un mausoleo bianco, un palazzo nell’acqua come il miraggio di un naufrago. E poi ascolto col pensiero il canto lieve delle parole di Tagore “La vita non è che la continua meraviglia di esistere”