Testo e foto di Valeria Cipolat
A gennaio del 2018 mi propongono di passare sei settimane in Angola.
Dal 1988 lavoro nel mondo delle Ong. In America Latina, in Asia e in Africa: non ero mai stata in Angola. Mi propongono un lavoro, accetto e dopo pochi giorni parto. Dell’Angola conosco poco: mi viene in mente la guerra civile, della quale Pablo – un habanero che avevo conosciuto a Cuba nel ‘98 – mi parlava mostrandomi la cicatrice al fianco, frutto di una granata esplosa poco distante. Lui era stato fortunato. Era ritornato. Mi viene in mente Ryszard Kapuściński e il suo libro la cui copertina ritrae una bella guerriglia con i capelli alla Angela Davis… fondamentalmente insomma, non ne so granché, neanche quando è finita la guerra civile… perché è finita, vero??
Luanda, la capitale più cara del mondo
Nel 2011 era stata eletta capitale più cara del mondo. La moneta locale, il Kwanza, ha un’oscillazione costante con il dollaro che ne svaluta sempre di più il potere d’acquisto. Il consiglio che mi viene dato per non avere sorprese è… di pagare quello che devi senza pensare al corrispondente valore in euro o in dollari.
Luanda è – a tratti – una città molto moderna. Alle spalle del Mariganel, il bel lungomare, zona elegante, si costruiscono grattacieli uno dopo l’altro. Qui si passeggia o si fa tranquillamente jogging verso l’ora del tramonto. Sono sorti tanti barretti e ristoranti stile europeo, a fianco però delle tante zone ancora molto trasandate da tipica megalopoli Africana.
Una cosa è certa: durante l’epoca del boom economico, legato all’esportazione del greggio, circolavano tanti soldi. Le auto sono tutte moderne, e c’è una prevalenza di macchine di grossa cilindrata che difficilmente si vedono in Europa. Range Rover Evoque, Land Cruiser e altre Toyota giganti sembrano essere le “utilitarie” di questa capitale. Tutte dotate di eccellente sistema di aria condizionata, per sopportare al meglio le code estenuante soprattutto nelle ore di punta del mattino. Ciò nonostante il traffico sembra che sia comunque molto inferiore a quello esistente prima della crisi del 2015, quando l’ondata di prosperità aveva infatti consentito l’acquisto di mezzi, anche di grossa cilindrata, che nel corso degli anni avevano inevitabilmente congestionato la rete viaria.
Della guerra civile d’Angola, terminata nel 2002, a Luanda non rimane quasi traccia. Marco, invece ne ha ricordi ancora vivi. Nel 1983 il padre – a quel tempo rappresentante-paese dell’Eni – si era trasferito nel Paese africano con tutta la famiglia. Marco frequentava la seconda elementare nella scuola dell’Agip. Due maestre, arrivate dall’Italia, seguivano tutti i bambini. “Non c’erano classi separate perché eravamo pochi: dieci, quindici dalla prima alla quinta”. Marco si ricorda il quartiere dove abitava “Stavamo in una zona residenziale, mi ricordo che c‘erano delle belle ville portoghesi di stile coloniale”. Spesso mancava la corrente e dovevano usare il generatore: “Occupava tutto il cortile di casa”. Nella stessa via abitavano rappresentanti di altre aziende straniere o personale delle ambasciate. Uno dei vicini era un diplomatico francese, sposato con una donna rumena di nobili origini, scappata dal regime di Ceausescu. Dall’altro lato, invece, c’era una numerosa famiglia angolana che aveva probabilmente occupato la casa. La madre cucinava col braciere sul pavimento. Con quei bambini, Marco, unico bianco, giocava alla guerra… “Ci facevamo i fucili con gli steli delle foglie di papaya e del filo di ferro. A volte portavo fuori il sacchetto dell’immondizia: quando i miei compagni di gioco mi vedevano, mi venivano incontro e mi chiedevano di passarglielo. A me sembrava strano, però li lasciavo fare. Lo aprivano, sperando di trovarci qualcosa da mangiare: resti del pollo, che avevamo mangiato a cena, o un pezzo di pane vecchio, o qualsiasi cosa ancora commestibile. A volte andavamo in spiaggia, dove potevamo giocare. C’erano dei militari russi armati e in divisa estiva. Sorvegliavano la zona – credo – perché in spiaggia c’era un pezzo grosso dell’esercito”.
Della città Marco si ricorda bene dei mutilati senza un braccio o una gamba. Cosi come del matto di turno che girava sempre nudo in mezzo alla strada.
A Luanda conosco anche Victor. Madre cubana, padre angolano. I genitori si erano conosciuti nell’isola caraibica, dove il padre era andato a studiare ingegneria forestale, per poi decidere di venire a vivere in Angola. Victor studierà successivamente ingegneria in Inghilterra, rientrando poi in Nigeria. Nell’epoca d’oro quando l’Angola – esportava greggio in tutto il mondo -, lavorava per una compagnia petrolifera. Una delle tante presenti nel Paese. “Tutti, a Luanda, lavoravano direttamente o indirettamente nel settore petrolifero”. Tuttora sulla penisola di Ilha do Cabo si intravedono costantemente all’orizzonte petroliere che fanno la spola dal porto.
Non oso immaginare come doveva essere il traffico navale di quel periodo. “Poi la crisi del 2015 ha cambiato tutto”. Ora Nestor possiede una sala per cerimonie. Comunioni, feste di Compleanno, matrimoni… “anche se la gente non si sposa più tanto come una volta…” Allora “diversifica” la sua attività: affitta la sala per corsi di zumba, e balli latino-americani. In Inghilterra, si era innamorato di una compagna universitaria. Per un po’ hanno vissuto anche in Polonia, poi le cose tra di loro sono cambiate e per fortuna sono rimasti in buoni rapporti. I figli sono rimasti con la madre. Lui li va a trovarli spesso e poi, di ritorno, passa a trovare i suoi genitori a Lisbona, dove vivono da quando sono in pensione.
Un pezzo di Francia a Luanda
Il Palácio de Ferro è un edificio storico nella capitale angolana, mi raccontano che è stato progettato da Gustave Eiffel, sì, lo stesso della torre parigina e della Statua della Libertà a New York.
La storia del Palàcio è avvolta nel mistero. Non esiste alcuna documentazione ufficiale di essa. Si ritiene che sia stato pre-costruito nel 1890 in Francia e fosse destinato al Madagascar. Invece, l’edificio finì in Angola dopo che la nave che lo trasportava andò alla deriva attraversando le famigerate correnti di Benguela. I sovrani portoghesi della colonia rivendicarono quindi la nave insieme a tutto il suo contenuto, incluso il palazzo.
Dopo anni di abbandono, è stato ristrutturato ed attualmente ospita qualche mostra d’arte e si tengono concerti nel giardino sottostante.
La strada per Huambo
I progetti di cui devo occuparmi sono a Huambo. Normalmente gli spostamenti vengono effettuati in aereo, la città dista circa settecento chilometri dalla capitale. Dobbiamo trasferire dei materiali: andiamo in auto, attraverseremo tutto il paese. Dieci ore di viaggio. Prima lungo la costa oceanica, poi le savane interne fino alla seconda città dell’Angola.
Famosa per aver ospitato una delle battaglie decisive per la fine della guerra, Huambo rimane una città molto dinamica soprattutto per la presenza del Caminho de Ferro, un sistema di rete ferroviaria di circa mille e quattrocento chilometri che percorre da est a ovest tutto il paese, fino ai confini con Congo. Tuttora si vedono case sventrate dagli ultimi combattimenti, compresa quella che apparteneva a Jonas Savimbi, carismatico leader della guerriglia che, supportato dagli Stati Uniti, combatté il governo filosovietico dell’Angola durante la Guerra Fredda.
Nel centro della città c’è un parco. Vi passo la domenica. Son quasi sola. Alcuni bambini giocano nel parcheggio. Cammino in un bosco di eucalipti colossali. Due ragazze vendono bolinhos, involtini di pastafrolla ripieni di carne o formaggio. Non hanno molto successo, non c’è nessuno. Solo una donna cammina davanti a me. Ci sono gruppetti di ragazzi, altre donne oscillano con grandi pacchi in testa. Si preoccupano e mi rassicurano: ‘Non temere, questo è un posto tranquillo’. Un ragazzo appoggiato alla moto mi saluta timidamente e mi chiede se voglio fare un giro per la città. Lo ignoro e lui non insiste. Mi avvicino a un edificio e continuo a vedere solo ragazzi da soli. Quasi tutti stanno leggendo delle dispense, e camminano avanti e indietro: sembrano attori mentre, fuori dal set, provano la loro parte… Che succede? Stanno girando un film? Ci sono dei provini in corso?, penso… Mi guardo intorno, ma non vedo traccia di altri movimenti. C’è una ragazza seduta in disparte. Mi avvicino: “Scusa, stai studiando?”. “Sì”, risponde. “Ma anche tutti gli altri ragazzi?” “Sì, sì, anche loro”, mi conferma. “Come mai studiate tutti qua?”. “E’ più tranquillo”, è la sua risposta scontata. Le case di questi ragazzi sono piccole e affollate. Cercano altrove quiete e un frammento di libertà.
Mezz’ora dopo il tramonto, all’improvviso manca la luce. È “solo” la seconda volta che succede in questa settimana. Niente male! Quando apro la finestra dalla terrazza del primo piano, vedo che tutto il nostro quartiere è al buio, e noi siamo proprio in mezzo. Solo in lontananza si vedono dei lampioni accesi. Noi siamo al buio, siamo invisibili. In casa dei vicini, parte il generatore, le loro luci si riaccendono. Noi non abbiamo fretta, in fondo ci godiamo questa oscurità. Il guardiano viene a chiedermi se deve accendere il nostro generatore. “Aspetta ancora un po’’. Poco dopo la luce ritorna.
“Bom dia Benvinda. Como vais?” “Muito bem e voce?”. Benvinda è la signora delle pulizie. Ogni mattina arriva intorno alle 7.30. Mi prepara il caffè, sistema la mia camera. Ha quattro figli, nonna di tre nipoti. Sembra felice e in pace col mondo. È la persona che lavora da più tempo con la nostra ong: sta con noi da nove anni. Lavora senza sosta fino alle quattro del pomeriggio. So che prima di venire a lavorare, all’alba, va in chiesa. Per un’ora, dalle cinque alle sei. “E’ il divertimento della mia giornata” mi confessa…
Il tramonto di Caala.
Assieme a una giovane collega, vogliamo andare a vedere il tramonto. A Caala, sulla collina. Non è vicinissima: bisogna attraversare la vecchia ferrovia che collega la regione del Katanga all’oceano. Fu costruita da un ingegnere inglese agli inizi del ‘900: i bianchi volevano portarsi via le ricchezze delle miniere del Congo Belga. Il caminho di ferro funziona ancora. I suoi orari sono imprevedibili.
La strada per Caala è un rettilineo lungo venticinque chilometri. Alla fine deviamo per una cammino sterrato, la terra è arancione intenso, umido di pioggia. Vogliamo raggiungere il santuario di Nossa Senhora del Monte. Un ragazzo sta studiando vicino al cancello della chiesa. Gli affidiamo la nostra auto.
I panorami sono grandiosi. La pianura è verdeggiante, monoliti rocciosi sembrano pietre lanciate dal cielo da un gigante furente. Il tramonto colora di rosso le nuvole. Il guardiano del santuario è ben felice di vederci arrivare: vuole andare a comprare il pane al paese vicino e spera in un nostro passaggio. Abbiamo bisogno del permesso della responsabile della ong per consentirgli di salire sulla nostra auto. Nessun problema, lei ci autorizza ad accompagnare il guardiano dal panettiere. In cambio, lui ci accompagna in un giardino dai fiori splendi: dalie e crisantemi attorniano tavolini e panchine, alcune donne sono in preghiera. Questo è un lugar de silêncio e oração, ci spiega. Entriamo nella chiesetta. Ci avvolge un odore di pelle di vacca. Proviene dagli sgabelli dove siedono i fedeli.
Il guardiano si è vestito da viaggio: stivali di gomma ai piedi e cappello da pioggia in testa. Tornerà a piedi, e sa che pioverà. Aspettiamo che accenda le candele della chiesa. Lascia la porta aperta
“Possiamo andare” dice. Mi spiega: “Siamo in tre guardiani e ci alterniamo a turni di due giorni.” La chiesa gli paga il pasto. È un vecchio non troppo alto, con gli occhi buoni e i modi umili. Si accomoda sul cassone del pick-up. Alla fine della discesa, vicino all’ospedale, con la mano aperta batte sul tetto dell’auto: è arrivato, ci salutiamo, lui sorride, non finisce di ringraziarci. Piccoli gesti africani.