Testo e foto di Francesco Sandri
Alla fine della faggeta un prato, isola ingiallita in mezzo all’oceano di fogliame. E insieme al prato una casa. O almeno quello che ne resta. Se ne sta da sola. Presidia silenziosamente il suo avamposto, come fanno i fortini diroccati che punteggiano le coste di ogni ex colonia dall’oriente estremo fino al nuovo mondo.
Uno dei quattro muri di pietra, spessi un braccio, la calce sgretolata è ancora morbida. Il muschio non ha fatto in tempo a crescere sui sassi. È un’enorme ferita aperta che verrà presto cicatrizzata da fusti e radici. Fosse stata veramente una vecchia fortezza coloniale vi sarei entrato respirando la sua aria secolare e senza nascondere un sorriso simpatizzante con il simbolo di rivalsa indipendentista.
Ma queste mura raccontano un’altra storia. Sussurrano intimità e mi muovo timidamente tra le rovine, quasi dovessi chiedere il permesso per entrare. Non sono emblema di conquiste e sottomissioni: raccontano di popoli immersi in una natura difficile da domare, ma capace di straordinaria bellezza, di convivenza con la montagna e amore per la propria terra.
Forse è una visione troppo romantica di tempi duri che non ho vissuto e di cui sento un’ingiustificata nostalgia. Però ogni colpo di scalpello inciso nello stipite granitico della porta, che ora giace disteso sul prato, mi riporta la passione e la personale ricerca della bellezza di chi ha voluto sfidare l’isolamento di questo posto. Leggo la dedizione attenta negli incastri perfetti di pietre, intricati mosaici monocromi, e mi rattrista vederli sfaldare a colpi di pioggia e vento.
Mi chiedo chi avrà abitato questa casa. Quali emozioni ha vissuto nelle lunghe notti invernali o al canto dei grilli, quando l’aria profumava di fieno maturo. Mi chiedo dove sarà andato. Magari emigrato in Australia o nelle pampas argentine; forse perso nel buio di una miniera in Belgio o a guardare i tramonti sul lago di Maracaibo. Forse, più semplicemente, nella nebbia di qualche pianura non così lontana, portando in valigia la manodopera per il boom economico e un ricordo annacquato di quel prato tra i faggi. Mi chiedo se in qualche momento avrà guardato indietro alla scelta di abbandonare i monti, pensando che al passare di ogni stagione sarebbero germogliati nuovi alberi e il ritorno sarebbe stato più improbabile.
Di fatto il ritorno non c’è stato. Lo ricordano proprio gli alberi, ultimi abitanti di questa e altre case smarrite nel verde. Affondano le radici nel pavimento e sporgono i rami dalle finestre. Chiedono pioggia, luce e cielo. Non c’è tetto o muro che possa resistere alle loro pretese.
Il primo che arriva di solito è il sambuco: con i suoi ombrelli di fiori bianchi e le bacche nere è presagio sicuro di un crollo imminente. Lo trovo anche qui, incastrato tra le travi lise e le pietre; vuole avere un posto in prima fila per osservare il ritorno del bosco. Tra qualche decina d’anni i massi intagliati torneranno a essere avvolti dalla terra e anche quest’isola sul versante soleggiato della montagna sarà coperta da uno spesso strato di foglie. La casa avrà completato il suo ciclo.
Torno verso valle sciando nella faggeta, carico di speranza per un futuro più verde e di malinconia per l’immeritato abbandono solitario a cui sono relegati questi luoghi. Guardo la mia casa boschiva e sono felice di vedere che ogni pietra è al suo posto. Voglio farle una promessa. Voglio dirle che non la abbandonerò. Non lascerò che il sambuco getti radici nelle sue viscere. E se per caso un giorno questo dovesse accadere lo stesso, guarderò con amarezza alla scelta di abbandonare i monti. Il ritorno sarà più difficile. Ma sento che ci sarà. E gli alberi dovranno tenere a bada le loro mire colonialistiche ancora per un po’; almeno fino all’ineluttabile ritorno del muschio e del bosco.