Proponiamo la versione integrale dell’articolo “I chiles en nogada, la certezza della vita” del narratore, poeta e saggiatore Enrique Lòpez Aguilar pubblicato sul numero 8 di Erodoto108 “Elogio del cibo”.
Disegno di Gabriele Genini, traduzione di Adriana Altamirano
Ci sono leggende la cui origine è molto difficile da ricostruire. Questo è il caso dei “chiles en nogada”.
Raccontano che alcune suore dell’ordine di Santa Clara inventarono una pietanza per onorare l’ingresso di Agustine de Iturbide, primo imperatore del Messico indipendente, nella città di Puebla, il suo onomastico (il 28 d’agosto) e la bandiera tricolore, da dove provengono i colori dominanti del piatto: il verde dei chiles poblanos, il bianco della salsa di noci e il rosso del melograno. Ci sono coincidenze felici in questa leggenda: la stagione del melograno che va da luglio ad ottobre, coincide con l’arrivo dell’Imperatore in città, tappa precedente al suo arrivo a Città del Messico.
Il 24 febbraio del 1821, con la firma del Plan de Iguala, s’istituì la bandiera tricolore messicana cucita dal sarto José Magdaleno Ocampo. E’ difficile credere che fra il 24 d’agosto, quando si firmarono i Trattati de Córdoba dove Juan O’Donojú fece la pace con gli Insurgentes, e l’ingresso dell’Esercito Trigarante Mexicano, il 27 di settembre (giorno del compleanno d’Iturbide), le suore abbiano avuto la prontezza d’inventare qualcosa di così complicato. È più verosimile supporre che usarono una precedente ricetta, creata per celebrare l’arrivo del vescovo nella capitale poblana (forse Juan de Palafox y Mendoza, che arrivò a Puebla nel dicembre del 1640). Gli ingredienti dei chiles en nogada e la sua complicata elaborazione dimostrano una sensibilità più barocca e meticcia che neoclassica; i colori implicati nel piatto già si trovavano suggeriti sopra le ali del putto che sorregge la Madonna di Guadalupe.
Le sue origini sono incerte, ma i chiles en nogada, no. Negli anni ’80 del secolo scorso lasciarono i conventi e le nobili casate poblanas per far parte del gusto borghese; quella che era una pietanza rara e privilegiata diventò d’uso ordinario sulle tavole di tanti.
Nonostante la sua grande diffusione, ai chiles en nogada succede quello che non capita né con el mole né con la cochinita pibil. Ogni famiglia che li prepara pretende di essere in possesso della receta (non di una ricetta, né di un variante prodigiosa della stessa: la receta). Se siamo fedeli alla preparazione, concorderemo che, al di là dei chiles poblanos, il melograno e le noci di Castilla, il soprannaturale mistero della sua preparazione si basa nel ripieno che richiama il sapore del dolce e del salato per la combinazione della carne trita con la frutta fresca e secca, le mandorle e le spezie; e che la salsa si fa con noci di Castilla macinate, mandorle, latte e marsala…
La ars culinaria si basa sulla conoscenza e l’accoppiamento di ricette. Si tratta di assaggiarle ed esplorarle, di conoscerne i segreti per, finalmente, dargli un tocco personale: la propria versione (come succede agli interpreti delle opere musicali, dato che ogni ricetta è come uno spartito per il cuoco), è l’interpretazione e la traduzione che si dispone fra il documento che riunisce una combinazione determinata e il risultato finale. Se nell’arte culinaria ogni ricetta fosse “la receta” (sapendo l’importanza di seguire con rigore molte di queste), ogni cuoco diventerebbe soltanto un ripetitore, che significherebbe la morte della sua creatività in cucina, come all’interprete nella musica: coloro che difendono la preminenza di una ricetta stanno solo postulando il riconoscimento di un sapore riconoscibile.
Ciononostante, non tutte le varianti sono buone. Sono indigesti i chiles en nogada capeados (fritti nell’uovo); sono pacchianamente romantici quelli che immersi nella salsa rosa ricavata dalla macerazione dei chicchi di melograno con la salsa di noci; “contro natura”, quelli che sostituiscono l’autentica e laboriosa salsa di noci con crema chantilly e noci tritate spolverate sopra…
Di fronte a questi eccessi, si può comprendere la necessità di divulgare una ricetta canonica, ma preferisco credere, borgeanamente, che l’archetipo si compone della somma delle sue elaborazioni fuori del mondo delle Idee e che, nella proliferazione, si eliminano le perversità.