Con Pietro Del Soldà, filosofo, scrittore e conduttore radiofonico, viaggiamo insieme a Erodoto alla ricerca dell’Avventura. Nelle pagine del suo ultimo libro, La vita fuori di sé, le mappe per diventare liberi.
testo di Susanna Cressati
Bodrum, Turchia, settembre 1969 - Alle cinque di quella mattina di settembre Bodrum era fresca come una rosa. La ragazza che sbarcò da un piccolo traghetto sulla riva del porto si era svegliata molto presto nella cuccetta della nave che da qualche giorno la portava in giro per il Mediterraneo. Non voleva mancare all'appuntamento con l'antica Alicarnasso. Un incontro che lei sperava sarebbe stato un lento, affettuoso contatto con una terra sconosciuta ma sognata, sia pur molto vagamente, nel corso degli studi classici. Una falce di costa abbracciava il mare fermo, che respirava il sole. Palme, case bianche, un minareto. Il tempo a disposizione era limitato, sufficiente solo per una breve avanscoperta nelle stradine strette tra le case calcinate. La città dormicchiava nella frescura. Si aprì una porta e un vecchio tirò fuori dal fondo che si apriva sulla strada una sedia impagliata e la sistemò sul selciato. Poi sulla sedia mise l'una sull'altra alcune pagnotte grandi. La ragazza avrebbe voluto addentare quella crosta bruna, che le pareva impastata dal palpito sbadato delle palme e dal ritmo della nenia che si stava diffondendo dal minareto, insaporita dalla patina fresca di smalto azzurro e di sale. Ma non c'era più tempo, bisognava tornare a bordo. Alicarnasso, la patria di Erodoto, sarebbe tornata solo dopo molti, molti anni ad alimentare la sua curiosità. (sc)
Chi più dell’Ulisse dantesco incarna, nella nostra cultura, lo spirito indomito e insaziabile di colui che fa dell’avventura il perno intorno a cui costruire il senso alla propria vita? Ulisse l’astuto, certo, ma anche l’uomo pronto ad affrontare i “cento milia perigli” che gli dei sono pronti a scagliarli addosso, spinto da un desiderio ardente di conoscere il mondo e gli uomini, nel bene e nel male.
Questa volta però il libro di cui vogliamo parlare, La vita fuori di sé di Pietro Del Soldà, ci invita a intraprendere un viaggio nell’avventura non seguendo il folle volo dell’eroe omerico ma piuttosto i passi instancabili di un altro antico greco, il gigante che è passato ai posteri con il nome di “padre della storia” che gli assegnò Cicerone. Sì, proprio Erodoto, il nostro eponimo, è il personaggio principale del volume che approfondisce la riflessione su questo tema a partire da un presente che sembra invece averlo messo da parte. Scelta del tutto centrata, se pensiamo alla vita, ai viaggi, all’opera di questo straordinario avventuroso nato ad Alicarnasso, l’odierna Bodrum, sulla costa meridionale dell’Asia Minore, fra il 490 e il 480 a.C. Viaggiò tutta la vita, visitando l’Egitto, la Fenicia, la Mesopotamia, la Scizia sulle coste asiatiche del Mar Nero. La sua opera in nove libri, le Storie, è densa della narrazione delle guerre persiane, ma anche di digressioni in cui si narrano gli usi, i costumi, le tradizioni, le istituzioni, le credenze, le religioni dei vari popoli con cui venne in contatto. E pare proprio che li abbia visitati tutti, i luoghi di cui parla, “vedendo con i proprio occhi”, così scrive, e consultando archivi nei templi, iscrizioni, ascoltando a sua volta racconti di contemporanei o di miti e antichi oracoli. Ad Atene fu amico di Pericle e Sofocle. Partì per l’ultima volta, pare, per l’Italia meridionale, dove partecipò alla fondazione della colonia di Thurii (oggi la calabrese Sibari), sulla costa occidentale del Golfo di Taranto e dove, forse, morì dopo il 425 a.C.
Erodoto maestro di storia e di avventura è una delle guide scelte da Pietro Del Soldà per mettere a fuoco il valore attuale di questo modo di “prendere la vita”.
Mi è sembrato che nella tua ricerca e nella tua definizione del termine “avventura” tu abbia particolarmente allargato il raggio della riflessione. In questa prospettiva l’avventura non è solo intraprendere un viaggio lontano o esotico, piuttosto è una apertura mentale e umana a tutto tondo.
Proprio così. Secondo due grandi filosofi dell’Otto-Novecento che hanno ragionato su questo, Georg Simmel e Vladimir Jankélévitch, l’avventura è una esperienza che si differenzia dagli altri momenti della nostra vita in quanto esce dalla logica ordinaria che struttura le nostre giornate, spezza la routine e il cerchio delle abitudini che costruiamo giorno dopo giorno. Ma non fa soltanto questo. Se lo facesse non sarebbe molto diversa da un qualsiasi evento, un incidente, una disgrazia, una gioia inattesa. L’avventura ha la peculiarità di essere una esperienza extra-ordinaria che rivela, più ancora dei nostri gesti abitudinari, chi siamo veramente; è uno squarcio nel muro delle abitudini da cui trapelano le nostre inclinazioni e il nostro sé più profondo che molto spesso rimane nascosto, almeno in parte, nella vita ordinaria. In più è caratterizzata da un atteggiamento di apertura nei confronti del mondo, dell’imprevedibile, una sorta di abbandono al corso degli eventi e alle infinite possibilità che riservano, all’incontro e alla scoperta. Simmel dice che l’avventura è “una tensione che inarca la vita”. Può accadere all’altro capo del mondo oppure a due passi da casa, ed è caratterizzata da questa volontà di entrare in consonanza piena con ciò che accade. L’avventura è anche una esperienza che avvicina agli altri. Noi siamo, come individui, figli di una società profondamente individualizzata e atomizzata, tendiamo a rinchiuderci in un piccolo guscio fatto di certezze, di abitudini, coltiviamo il culto di una identità personale, di un “Io” con la I maiuscola che esercita una vera e propria tirannia sul corpo, sulle passioni, sulle nostre scelte. Il dilagare dei social network non fa che esacerbare tutto questo. All’insegna del narcisismo siamo anche profondamente conformisti e sottoponiamo costantemente scelte ed azioni al giudizio degli altri. E anche di noi stessi. Tutto questo costruisce uno spesso guscio in cui ci rinchiudiamo e che ci impedisce di entrare in contatto con il mondo esterno. L’avventura, come la descrivo nel libro, è esattamente la rottura di questo guscio, l’esperienza che mi libera, che apre una fessura e mi consente di uscire dalla sottomissione alla tirannia dell’io, entrando più profondamente in contatto con quello che sta fuori.
Nel libro si parla molto di viaggiatori e di viaggi. I tuoi eroi sono Alexander von Humboldt e Isabelle Eberhardt, Ryszard Kapuściński e Corto Maltese. Tuttavia abbiamo visto che non solo il viaggio ma anche altre esperienze ci capiti di vivere possono essere o non essere un’avventura: dipende da noi, dal momento in cui ci troviamo, dal modo in cui la affrontiamo, dalla tensione che riusciamo a imprimere alla nostra libertà.
Proprio così. Non avrebbe senso confinare l’avventura nel viaggio e gli stessi modi di viaggiare sono diversi: può essere avventura ma anche semplice turismo. Se il viaggio è componente importante dello spirito dell’avventura e dell’uomo avventuroso, non avrebbe però nessun senso rinchiudere l’avventura all’interno di requisiti o di criteri. Come spiegano i due filosofi l’avventura non ha caratteristiche precise, per incontrarla non bisogna per forza andare in Amazzonia come Alexander von Humboldt (1769-1859) instancabile esploratore, geografo, biologo, naturalista, che percorse il mondo tra l’Europa e le Americhe, dalle vette del Chimborazo alle steppe russe, o nel deserto nordafricano come fece Isabelle Eberhardt (1877-1904) viaggiatrice e scrittrice “sapiente del Corano”, riconosciuta come tale in tutto il mondo islamico. Prendiamo a un personaggio come l’avventuriero. Molti pensano che sia questo modello a incarnare lo spirito libertario e democratico dell’esperienza avventurosa, e invece è proprio colui che più profondamente lo nega. Jankélévitch si sofferma su Don Giovanni, l’avventuriero seriale, che ogni giorno deve vivere una avventura, nel suo caso erotica e sentimentale. Lui cataloga le sue esperienze come fosse un mestiere e ne fa di fatto una abitudine, una professione, secondo un conformismo che nei fatti nega radicalmente quella valenza di imprevedibilità, apertura, abbandono al corso degli eventi che, come ho detto, caratterizza l’avventura. Per avere quel valore di rivelazione di ciò che siamo veramente l’esperienza avventurosa deve essere non riconducibile a requisiti, caratteristiche specifiche che la contraddistinguono. L’avventura arriva all’improvviso nella vita di chiunque e riguarda la natura umana nella sua essenza.
Può esistere una pedagogia dell’avventura? In fondo è possibile incontrare, nel corso della vita, qualcuno che ti avvia alla scoperta dell’avventura, alla ricerca di nuovi mondi o anche dei propri stessi talenti.
Se io mi avvicinassi all’avventura imitando il modo di vivere di un’altra persona, fallirei miseramente, mi starei adattando esteriormente a un criterio estraneo, non ne farei una avventura mia, che come tale deve essere imprevedibile, non progettabile. Sono d’accordo però nel pensare che sia possibile una educazione all’apertura, all’incontro. Un capitolo del libro affronta ad esempio il tema dell’abitudine, di cui parla Michel de Montaigne in uno dei suoi Saggi. Dice il pensatore francese del Cinquecento:
“L'abitudine è in verità una maestra di scuola prepotente e traditrice. Ci mette addosso a poco a poco, senza parere, il piede della sua autorità; ma da questo dolce ed umile inizio, rafforzato e ben piantato con l’aiuto del tempo, ci rivela in breve un volto furioso e tirannico, di fronte al quale non abbiamo più neppure la libertà di alzare gli occhi. La vediamo forzare ad ogni istante le regole di natura. Usus efficacissimus rerum omnium magister: l’abitudine è potentissima signora di tutte le cose... Il principale effetto della sua potenza è che essa ci afferra e ci domina in modo che a malapena possiamo riaverci dalla sua stretta e rientrare in noi stessi per discorrere e ragionare dei suoi comandi”.
E tuttavia è proprio quello che possiamo e dobbiamo fare, renderci conto del potere che l’abitudine ha su di noi e capire che esiste un altro spazio, un nostro spazio al di là di essa. Ecco, questa può essere un’azione pedagogica, quella di ricordarci che siamo liberi. La pedagogia dell’avventura di cui parli è in realtà una pedagogia della libertà.
Veniamo a Erodoto, che è uno dei personaggi principali del tuo libro oltre che l’eponimo di questa pubblicazione. Perché hai scelto proprio il “padre della storia” per parlare di avventura?
Erodoto nasce ai confini tra due mondi, quello greco e quello persiano, ed è il primo grande viaggiatore che si apre all’alterità, l’uomo che per la prima volta si lascia affascinare e sedurre dalla diversità, che non liquida le usanze degli altri popoli o le gesta di grandi personaggi, per quanto nemici, come meramente barbariche ma le considera interessanti, degne di nota e di racconto. Il fulcro del mio ragionamento che ruota intorno a Erodoto sta nel suo racconto delle due guerre persiane e soprattutto delle due grandi battaglie di Maratona (490 aC.) e di Salamina (480 aC.).
La battaglia di Maratona è quella che consente agli ateniesi di preservare la propria libertà minacciata dall’invasore persiano “uscendo fuori”, come secondo Erodoto si esprime il generale Milziade rivolgendosi ai suoi colleghi strateghi quando in città si discute che cosa fare con il nemico ormai alle porte. Milziade sostiene che bisogna uscire dalle mura, andare incontro al nemico sorprendendolo ed evitando così l’errore che pochi giorni prima avevano commesso gli abitanti di un’altra polis attaccata dai persiani, Eretria.
Qualche anno prima Atene ed Eretria avevano sostenuto, mandando alcune navi, la rivolta degli Ioni in Asia Minore e Dario re di Persia si era mosso per punire le due città. I cittadini di Eretria commettono l’errore più grave: di fronte al nemico che li minaccia non hanno il coraggio di uscire fuori dalle mura per andargli incontro o anche per fuggire, non credono che gli si possa lasciare in mano la città perché le case, le statue, le ricchezze materiali non sono la vera città, la vera polis è un’altra cosa. Invece, attaccati alle loro proprietà, impauriti e vili, incapaci di fuggire e anche di sorprendere il nemico, rimangono chiusi nella loro bolla, sperando di resistere allo schianto dell’invasore. Dove sta l’errore? Erodoto lo dice chiaramente: comportandosi così gli abitanti di Eretria finiscono per soggiacere a quella che per i greci è la peggiore delle condizioni per un singolo uomo e per una comunità. Questa condizione si esprime con la parola “στάσις”, che noi banalmente traduciamo con “stasi, mancanza di movimento”, ma che per i greci significa tutt’altro, cioè guerra civile, discordia interiore e tra le fazioni, individuale e sociale. È esattamente quello che accade ai cittadini di Eretria che in realtà, dice Erodoto, vengono sconfitti non dai persiani, che dopo pochi giorni di assedio entrano in città, la distruggono e portano via quasi tutti, ma dalla loro stessa indecisione, dal fatto che soccombono alla stasi, alla guerra civile che fa sì che alcuni comincino a tramare contro gli altri, alcuni sperino di fare un patto separato per avere salva la pelle a discapito dei concittadini, altri vorrebbero fuggire ma non hanno il coraggio di farlo. Insomma, la cittadinanza si frantuma ed è lì che la polis muore. Questo dice Milziade ai cittadini di Atene, ribadendo la necessità che essi agiscano in modo diverso se vogliono preservare la loro libertà. Anche a costo di morire, certo, contro un nemico più forte. La libertà è qualcosa che ha a che vedere con il mantenimento della concordia tra i cittadini, evitando quell’esito tremendo che è la “στάσις”, la discordia. Anche per Platone, quando fa parlare Socrate che dialoga con i suoi interlocutori, dice che il peggiore dei mali è il disaccordo con se stessi, sinonimo dell’infelicità, e Aristotele afferma che la stasi è ciò che caratterizza, dilaniandola, l’anima del malvagio. Il generale Milziade ha parole molto filosofiche: dobbiamo andare fuori – esorta gli ateniesi – uscire dalle mura perché questo è l’unico modo per tenere fede a quella libertà su cui è fondata la nostra città. Lui usa due parole, libertà ed uguaglianza, ελευθερία e ἰσηγορία, che significa uguale diritto di parola nell’agorà, due criteri che fondano una libertà che non è evidentemente possibilità di fare ciascuno quello che ci pare ma libera partecipazione alla vita collettiva, quindi alla politica. Questi due criteri, per essere salvaguardati, richiedono che i cittadini ateniesi non rimangano sudditi della stasi. Quindi escono fuori, vanno incontro al nemico e vincono.
È interessante che dieci anni dopo, alla vigilia dell’altra grande battaglia della seconda guerra persiana, quella di Salamina, questa esigenza si faccia ancora più radicale. In questo caso c’è Temistocle a guidare le sorti militari di Atene. Visto che non c’è partita con l’invasore persiano, almeno via terra, gli ateniesi abbandonano la città con il gigantesco esodo di massa descritto da Erodoto, che però non è una sconfitta. Nuovamente la maggior parte degli abitanti abbandona la città di pietra, di legno, le ricchezze materiali, consapevole che la vera città non è questa. Temistocle lo dice chiaramente: la città vera è fatta della dinamica relazionale dei cittadini e quindi può essere ricostruita ovunque. La vittoria è garantita dalla libertà politica, nutrita di partecipazione, che rende più forti, ma a cui si accede soltanto uscendo dalle proprie mura.
Tutto questo invita alla riflessione sul passaggio da quella che è l’attitudine personale e individuale a una scelta collettiva e politica. E suggerisce un altro tema che emerge in questo e in altri tuoi libri: la relazione tra individualismo e sovranismo.
Il guscio identitario è infatti anche collettivo. La tirannia dell’io è sia quella dell’Io con la I maiuscola sia quella del “Noi”. Apparentemente sembrerebbero due posizioni politicamente diverse: da una parte l’egoismo spinto delle élites liberali cosmopolite che pensano solo ai loro interessi e non a un bene collettivo e il “noi” dei sovranisti, di questi leader populisti che si dichiarano “anti-élites” e predicano il riscatto degli ultimi. In realtà queste due forme di identitarismo, pur essendo rappresentate da categorie di persone diverse, condividono il medesimo approccio di chiusura nei confronti dell’alterità. Questo è il punto. Si chiude per proteggersi e per paura. È proprio questa oggi l’emozione fondamentale di questa politica: la paura. Mentre l’avventura è un moto contrario, la liberazione da questa chiusura.
In tutto questo c’è quindi molto di politico, nel senso alto del termine, e anche di etico.
L’avventura lo è certamente, almeno così come si concretizza in una figura che ho amato tanto, quella di Alexander von Humboldt. Con la sua costante ricerca von Humboldt mette in crisi confini e frontiere, barriere e pregiudizi: il dualismo cartesiano tra uomo e natura, la superiorità dei popoli europei rispetto agli indigeni che incontra in Sud America. Vivendo di uno spirito avventuroso, mosso da una sete di conoscenza pura non solo approda a una idea dell’unità della natura che lo renderà un specie di proto-ecologista ma anche a prese di posizione etiche molto forti. Ad esempio diventa un fervido antirazzista e antischiavista. Nella sua corrispondenza con il presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson non mancò di rimproverargli il fatto di essere schiavista (pur essendo democratico). Fu anche anticolonialista, al punto che indottrinerà il giovane Simon Bolivar, che viveva esule a Parigi, sulla necessità di un riscatto delle colonie americane dalla sudditanza alla corona spagnola. E Bolivar dirà poi quanto la lezione di von Humboldt gli fosse servita a maturare quello spirito di indipendenza che lo portò in seguito alla liberazione del Venezuela.
L’avventura è una presa di posizione etica perché inevitabilmente significa tensione, apertura costante a un mix di intensità delle esperienze, di abbandono al corso degli eventi, un affidarsi agli altri intimamente connesso con l’umanità altrui. Può anche essere vissuta da soli, però richiede una connessione profonda e ci fa sentire più vicini agli altri. L’avventuroso non potrà mai avere un atteggiamento da “conquistador”, egoista e predatorio, non aderisce a una logica individualista e competitiva, non desidera piantare bandiere in cima alle montagne o scoprire un fiume. Von Humboldt scopre un fiume che collega l’Orinoco e il Rio delle Amazzoni ma subito ammette di non aver scoperto niente, perché le popolazioni indigene locali conoscevano perfettamente da sempre questo collegamento. In von Humboldt leggo la libertà, il superamento di ogni frontiera, la dignità, il rispetto della natura, il valore della misura. Curiosità, capacità di meravigliarsi e amore per la natura procedono insieme e sono qualità essenziali degli uomini liberi.
Piero del Soldà, Venezia, 1973, è filosofo, autore e docente universitario. Nel 2002 ha iniziato la collaborazione con Radio 3 per la trasmissione di politica internazionale “Radio3Mondo”. Dal 2011, sempre su Radio 3, è voce e autore di “Tutta la città ne parla”, il programma vincitore del Premio Internazionale Flaiano 2018.
Susanna Cressati, Palmanova, Udine, 1951, ha consumato parecchie paia di scarpe lavorando per l’Unità, come redattrice e inviata. Quando, alla chiusura delle testata, si è impegnata nell’Ufficio stampa della Regione Toscana (diventandone direttrice) ha continuato a consumare (nei limiti delle sue forze) gli scarponcini da trekking. Leggere libri, disegnare montagne, nuotare e cucinare sono cose che ama fare.