Testo e fotografie di Andrea Semplici
Il tempo di Sheik Hussein rallenta. Non so niente di questo posto. So che ne hanno scritto studiosi del sufismo e illustri etiopisti italiani e inglesi. Forse leggerò, ma adesso che sono qui non ne so niente. Ho l’alibi di voler guardare senza sapere, senza conoscenza. So che è una scusa che maschera una pigrizia e una incapacità. E poi non è facile trovare quei libri. Ma alcuni di loro sono sui miei scaffali. Non li ho presi, non li ho letti. In più: molte di quelle pagine raccontano una storia che non riesci a ritrovare in quanto stai vedendo. Ho in testa le parole di un francese, Michel Leiris. Cito a memoria: ‘Vorrei essere posseduto invece che studiare i posseduti. Vorrei conoscere carnalmente una ‘zarina’ invece che sapere scientificamente dei suoi fedeli. La conoscenza astratta non sarà che un artifizio’.
Infine: Mohammed, Nassir e perfino l’elegante Abdel Khadir, notabile di Ghindir, ma in pellegrinaggio al suo villaggio natale, sono scomparsi. Ho visto passare dei soldati con grandi mazzi di chat. Le ore della festa, in questo pomeriggio, sono dedicate a masticare le piccole foglie che donano il bene dell’ebrezza e stordiscono i pensieri. Avvicinano a Dio, è certo T. che sta imparando qua a ‘to chew chat’.
Il villaggio nascosto di Sheik Hussein è deserto di uomini. Al santuario ci sono i bambini e donne. A bere, a prendere l’acqua dello stagno. Solo ‘i folli di Dio’ siedono di fronte all’ingresso principale. Feisal è nella sua casa accanto al recinto sacro. Lo intravedo nel buio. Questa volta, vinco la mia timidezza, ed entro. Feisal è giovane e sorridente. Le rughe attorno agli occhi ridono quando parla. E’ figlio di Omar, il vecchio ‘guardiano’ del santuario. Omar, per settantacinque anni (devo crederci?), ha vissuto accanto alla tomba di Sheik Hussein. Deve essere morto da poco, ho visto le sue foto. Non so bene chi sia Feisal e chi sia stato Omar. Attorno al santuario vivono, arrivano, si fermano uomini dai capelli impiastricciati di burro, dalla pelle sporca, dalle vesti lacere, dalle scarpe sfondate. A volte sono taciturni: si mettono dietro di te in silenzio e ti seguono senza chiedere nulla. A volte, allungano una mano, ti sfiorano un braccio, ti invocano e chiedono denaro. Vi è chi li ritiene uomini sacri, devoti estremi allo sceicco Hussein, intoccabili. Nessuno, apparentemente, li scaccia. Molti di loro hanno il bastone a corna di antilope che a niente serve: è bellissimo, ma è troppo leggero per appoggiarvisi durante il cammino o per difendersi. E’ solo un bel bastone lucidato dallo sfregamento delle mani. Un bastone che i fedeli di sheik Hussein considerano simbolo della loro fede. Per altri, questi uomini perduti sono solo gente che ha deciso di vivere di elemosine e cercano il tuo denaro. Penso che alla fine così fan tutti e, di nascosto, metto dieci birr nelle mani di chi sta pedinando da ore. Se ne va. Ne sono quasi deluso. Speravo che rimanesse.
Feisal, il guardiano, mi sta simpatico. Siedo accanto a lui. Ne scopro la vanità, chiede di essere fotografato. La moglie cambia posa di continuo. C’è aria di chat in questa stanza buia, c’è un tamburo sacro e lui indossa il cappello di perline e luccichii che era stato di suo padre, beve dal suo piccolo contenitore di zucca e impugna il suo bastone. Se penso a un uomo felice, mi viene in mente lui.
Vado allo stagno sacro. Le donne, come a Lalibela, sanno di raccogliere acqua benedetta. Questo è il deposito idrico di Sheik Hussein. E’ l’acqua più vicina, bisogna togliersi le scarpe per venire fino a qui e le taniche gialle (da venticinque chili) vanno portate sulla schiena. Le donne arrivano, spostano con un movimento le alghe e riempiono il loro contenitore. Fanno due chiacchiere. E’ un luogo sociale, lo stagno. La gente del sacro, chi ha scavato questo deposito di acqua, sapeva unire i bisogni primari di chi viveva qua al divino. Abile strategia.
I folli di Dio si riempiono la bocca dell’argilla santa. Si rincantucciano nella tomba dello sceicco, si siedono per terra, grattano la terra, spostano i sassolini e si spalmano il palmo della mano di questa polvere. Leccano le dita, inghiottono la terra. Lo faccio anch’io. Abbiamo la faccia sporca di grigio. I bambini imitano i grandi, entrano, e rovistano fra i sassi. Come se cercassero la polvere migliore. Si alzano nuvolette sabbiose. Mi piace stare qui. I folli di Dio mi guardano, si scambiano sassolini di incenso. Tirano fuori cenci laceri. Guardo la teiera di plastica di uno di questi uomini: ha la forma di un piccolo pallone di calcio.
Sheik Hussein non appare come un paese. Ma ha uno stradone principale. Vi è la grande antenna della televisione (in un paese senza elettricità) e la tomba del padre di Hussein. Poi sono case di pietra che si disperdono nella savana dalla terra rossa. So che qui non è possibile alcuna agricoltura. Si beve latte, si mangia miele e, a volta, si uccide una capra. Le case sono affreschi di geometrie. Il sole le illumina, i fichi di india sono alberi. Recinti spinosi proteggono le case dalle iene. Sono belle le case di Sheik Hussein. Passeggio fino a quando il sole non se ne va.
Feisal ha acceso il fuoco davanti alla sua casa. Ci invita. Una pecora è legata a un palo. Si affilano coltelli. Il guardiano indossa tutto l’armamentario del custode del santuario. Spada, bastone, cappello, contenitore di zucca. E’ appoggiato al muro del recinto sacro. Comincia il canto, la recita, il grido, l’ondeggiare della trance. Lui ride, sono salmi africani, la sua voce è bella e alta. Un vecchio si alza, dice qualcosa davanti a Feisal. Lui commenta con un verso di gola. E’ un duetto. Ne sono incantato. Adesso il cielo è cobalto, la calce del muro riflette il fuoco, la pecora ha belati sempre più fiochi e rassegnati, Feisal è un’ombra nera. Suona il suo cellulare. Il guardiano ha un sorriso. Risponde. Annuisce con la testa e si mette a cantare. Chiamano dall’Australia. Si burla di me, Feisal? I fedeli di Sheik Hussein, dispersi nel mondo, non vogliono perdersi il sacro di questa giornata e Feisal canta per loro, prega per loro, invoca la benedizione dello sceicco per chi vive lontano dal santuario. Questo è il moderno in questo villaggio lontano da tutto. Già, cos’è tutto? E da dove è lontano, questo tempio dell’Islam antico? E se questo, al pari di Timbuctù o di Polsi, fosse il centro del mondo?
Lascio alle spalle il canto di Feisal. Nella notte, si è cullati dal clap-clap delle mani che battono legni un con l’altro. Vorrei essere lì. E invece sono nella mia tenda.
Un libro da leggere e guardare: le parole di Elisabeth Foch e le immagini di Paola Viesi. Due donne nel misticismo dell’Etiopia: ‘Ethiopie, le ferveur et la foi’ Actes du Sud, 2010. E’ un viaggio nel cristianesimo e nel sufismo etiopico.