Testo e foto di Donatella e Aldo Boccazzi
29 marzo 1940
Ardito Desio raggiunge via terra l’oasi di Ghezendi che aveva individuata in una precedente ricognizione aerea. E’ l’unico villaggio permanente nella parte settentrionale del massiccio del Tibesti; solo qui, spiega Desio, sono presenti contemporaneamente alcune condizioni necessarie per una vita sedentaria: sgorga l’acqua da una piccola sorgente, la falda è poco profonda permettendo lo scavo di pozzi mentre il terreno e il clima sono favorevoli a piccole coltivazioni.
“Il piccolo nucleo abitato giace sul fondo di una valle dalle pareti verticali cesellate dal vento e dall’alveo angusto, alla quota di 1063 m. sul mare e a circa un centinaio di chilometri dallo sbocco nel serir Tibesti. E’ formato da una trentina di capanne sparse … Altre capanne abbandonate e in rovina stanno poco più a monte. L’oasi è formata da un centinaio di palme, in prevalenza palme dum (le rimanenti dattilifere) sparse irregolarmente sul piccolo piano e addensate maggiormente dove sorge l’abitato. Nelle vicinanze immediate delle capanne sono scavati quattro pozzi … Trovai solamente cinque persone, tre uomini e due donne: uno dei primi però non era tebu ma sudanese ed era addetto ai lavori campestri. Probabilmente si tratta di uno schiavo o ex-schiavo. Tutto il resto della popolazione era con i cammelli al pascolo. A giudicare dal numero delle capanne si può ritenere che la popolazione di Ghezendi ammonti complessivamente a 100-200 persone ma probabilmente il villaggio non è mai al completo.” (A. Desio, Il Sahara Italiano – Il Tibesti nord orientale, 1942)
In quegli anni, subito prima della Seconda Guerra Mondiale la regione è percorsa da diversi militari, esploratori e geologhi italiani dato che si trova al confine meridionale della colonia italiana di Libia.
Successivamente cala il silenzio e dell’oasi si perde anche la memoria.
25 ottobre 2014
Quasi 75 anni dopo Desio arriviamo a Ghezendi.
La seconda Guerra Mondiale, il conflitto tra Libia e Ciad degli anni ‘70, i ripetuti scontri tra i Tebu, popolazione del Ciad settentrionale, e il governo centrale hanno accentuato l’isolamento della regione. La drammatica e caotica situazione libica del dopo – Gheddafi rende impossibile ripercorrere il cammino di Desio. Le mine disseminate da tutti i contendenti obbligano a lunghe deviazioni.
Ci arriviamo da sud partendo da N’Djamena, la capitale del Ciad. 1650 chilometri, 9 giornate di pista.
Come non pensare alle parole di Desio “vedo comparire sullo sfondo, verso sud, il caratteristico ‘duomo’ roccioso che tanto mi aveva colpito dall’aeroplano per le sue belle linee architettoniche e che ora mi indica la posizione di Ghezendi.”
I ciuffi di palme dum offrono ancora un’ombra provvidenziale al sole del mezzogiorno ma non vengono curate da tempo: le foglie più basse si ammassano ormai secche e molte piante sono morte o bruciate.
Quattro persone ci attendono davanti alla prima capanna, un uomo e tre ragazzi; attenti ad ogni rumore inusuale, ci hanno sicuramente sentiti arrivare da molto lontano. L’uomo è il responsabile del villaggio ma i suoi lineamenti rivelano che non è della regione; non è un Tebu ma un Kereda, un gruppo del sud.
Il vero capo villaggio l’abbiamo incontrato giorni fa in una piccola oasi a diverse centinaia di chilometri da qui, verso sud, in visita alla figlia, sposata con un ragazzo di là. Tra i Tebu infatti è proibito il matrimonio tra parenti, e si è parenti quando si ha anche solo un trisavolo in comune! Non è facile trovar moglie da queste parti a meno di viaggiare di oasi in oasi, a piedi o a cammello; in questo modo si intessono relazioni, si saldano legami tra comunità lontane e ciò fa dei Tebu un gruppo fiero della sua identità e coeso.
I tre ragazzini, che ci accompagnano in cerca di pitture preistoriche mentre controllano il gregge di capre, studiano nell’oasi di Omu a 100 km di distanza lungo la pista da cui veniamo e rientrano a casa saltuariamente. Ci abbiamo messo tutta la giornata per coprire questa distanza ma un Tebu a piedi, tagliando per montagne e vallate, può raggiungere l’oasi in tre ore.
Forse qualche donna rimane all’interno delle capanne. Intorno al pozzo però non si affollano ragazze che colgono l’occasione per scambiarsi le ultime novità. Vediamo invece alcune Toyota e ragazzi in jeans che stendono sui cespugli gli abiti appena lavati e riempiono d’acqua fusti da 200 litri.
Sembra che vengano dal deserto sul confine libico dove è in atto una corsa all’oro più o meno clandestina e dove manca l’acqua necessaria al lavaggio delle sabbie aurifere.
La struttura delle capanne è pressoché immutata dai tempi di Desio: un muretto di pietre a secco, l’intelaiatura del tetto fatta di rami intrecciati e la copertura costituita dalle costole di foglie di palma. Tutti materiali facilmente reperibili sul posto ma che si deteriorano facilmente e richiedono una regolare manutenzione. Molte capanne sono in cattive condizioni, il più delle volte manca la copertura, segno che la popolazione dell’oasi è ridotta al minimo e la maggior parte delle persone vive altrove e torna saltuariamente, probabilmente nella stagione della raccolta dei datteri.
Ci allontaniamo dal villaggio alla ricerca della “porta di Ghezendi” di cui parla Desio.
Le pareti di roccia si fanno verticali, alte un centinaio di metri e si avvicinano tra loro a delimitare una sorta di corridoio. Il sole non arriva fin quaggiù e le palme crescono rigogliose formando un boschetto intricato dove l’ombra offre un qualche sollievo ma la mancanza d’aria fa sudare abbondantemente. Qualche piccola pozza raccoglie l’acqua che sgorga goccia a goccia dal terreno e permette la crescita di erbe palustri.
Il canyon si apre inaspettatamente su una piana sabbiosa circondata da montagne e ricca di vegetazione, rifugio perfetto per chi si voglia nascondere. Sembra infatti che fosse frequentata dai ribelli tebu, forse anche dal leggendario capo Togoimi, durante la sollevazione contro il governo centrale alla fine del ‘900. La piccola oasi di Ghezendi di cui oggi non c’è traccia neanche nelle carte geografiche più dettagliate, era però già frequentata nella preistoria come testimoniano le coppelle rituali e le incisioni lasciate sulla roccia. La millenaria storia delle comunicazioni tra gli abitanti di Ghezendi iniziata con le incisioni lasciate sulla roccia è approdata al cellulare e al telefono satellitare di oggi.