Link: Hotel Immagine by Simone Donati
Intervista di Alessandro Lanzetta
Simone Donati é un fotografo del Collettivo TerraProject. Da poco é uscito il suo ultimo lavoro, Hotel Immagine, il libro. Un racconto per immagini durato cinque anni. Simone ha girato il paese in lungo e largo, cercando quei riti dove la gente si ritrova, che si tratti di religione, politica, sport o musica. Ne esce fuori un racconto sulla contemporaneità, una traccia visibile dei luoghi di aggregazione, dei riti collettivi di oggi.
Lo abbiamo intervistato per conoscere il libro ma anche per capire meglio come funziona oggi il rapporto con gli editori, le difficoltà di pubblicare e distribuire un libro di fotografia.
La prima cosa che mi é venuta in mente guardando le immagini e conoscendoti un po’ é l’ironia. Perché?
E’ una bella domanda… mi é sempre venuto naturale fotografarle in un certo modo, non mi sono sforzato di farle ironiche.
Come nasce Hotel Immagine?
Il progetto é nato nel 2009 quando ho fatto il lavoro sui supporters di Berlusconi, “Welcome to berlusconistan“, poi seguito da quello di Padre Pio. Mettendo tutto insieme mi sono reso conto di quanto la gente riesca ad attaccarsi a qualcosa, a seguire con molta enfasi un vivo, un morto, un santo, un politico. Da qui la voglia di allargarlo, di andare a vedere altri settori dove succedono queste cose. Ci avevo pensato un po’ ed erano venute fuori una serie di situazioni simili, nella musica, nello spettacolo, nello sport.
L’altro elemento che esce fuori molto é la vanità, un bisogno di esserci.
Si, é un po’ la chiave. Il bisogno di esserci é legato al bisogno di stare insieme. Si riuniscono per andare a seguire Berlusconi, Beppe Grillo o Renzi. Si riuniscono perché c’é la veggente che ha l’apparizione, perché c’é il cantante neomelodico che suona in spiaggia, si riuniscono perché ci sono le selezioni del Grande Fratello e cosi via. E’ l’identità. C’é bisogno di identificarsi in qualcosa.
L’identificazione poi porta alla produzione del ricordo di quell’evento, per esempio il selfie. Di fronte a quell’immagine del ricordo tu scatti una fotografia.
Esatto, in tutte queste situazioni la gente scatta foto… nella cripta di Padre Pio, nella cripta di Mussolini, al concerto…
Documentano se stessi…
Si, se stessi ma anche quello che sono. Se stessi in un luogo perché il luogo é fondamentale in molte di queste situazioni. Mi ricordo, guardando una puntata di Pif, Il Testimone, su San Giovanni Rotondo, che la gente diceva “vado a Padre Pio”, non vado a San Giovanni Rotondo o da Padre Pio. La cosa incredibile é quella di andare da un santo, un’entità… l’ho trovata bellissima.
Delle quarantotto foto del libro, qual’é la tua foto preferita?
Non ce n’é una preferita. Non ne ho mai individuata una rispetto ad un’altra. Per tante di queste immagini ci puo’ essere un aneddoto, un qualcosa che mi ricordo. Raramente penso alla foto singola, per qualsiasi progetto. Per me é sempre un insieme di foto che raccontano qualcosa. Lo stesso in questo caso. Non c’é una situazione più importante delle altre. Per me questo é un libro che funziona perché é tutto mescolato, é tutto insieme. Passi da una cosa all’altra totalmente diversa. Giri pagina e sei a Predappio, quella dopo sei a un concerto, quella dopo ancora sei alla Rai.
E quindi no, non ho mai individuato la mia foto preferita. La foto più vecchia che c’é nel libro é del 2009. E’ quella che ha fatto partire tutto, sicuramente é una delle più importanti, il comizio di Berlusconi a Firenze, dove si vede il tizio che blocca la folla. E’ importante anche per il tipo di immagine. Io qui me ne frego di Berlusconi, che sta alle mie spalle, mi guardo la gente che lo vuole andare a toccare e i fotografi che lo stanno fotografando. In questa foto si vede nove, dieci, tra fotocamere e telefoni e nel 2009 c’erano gli smartphone, ma pochi. Oggi, in questa situazione, ce ne sarebbero il doppio di cellulari alzati.
Il nome Hotel Immagine é nato all’inizio del progetto?
No no, é nato verso settembre, ottobre dello scorso anno. C’era un altro titolo prima. Poi ho pensato che mi sarebbe piaciuto avere un’immagine che si ispirava al titolo e viceversa. L’ho trovato azzeccato questo titolo. Mi piaceva una cosa breve, diretta, ma neanche troppo.
Qual’era l’altro titolo?
Il titolo iniziale era Staged, ovvero Stage con la”d” tra parentesi o staccata, un gioco tra palco e finzione.
Il libro é autoprodotto. Perché?
Ho contattato due editori italiani che fanno libri di fotografia, li conoscevo, ma non erano interessati. Sono andato avanti, il che ha significato investire diverse migliaia di euro e un bel po’ di tempo da ora in avanti nella promozione. Un editore ti dà una distribuzione, poi molto probabilmente ti fa pagare. Magari non avrei speso tutto quello che spendevo io perché un editore buono un po’ di soldi ce li investe, ma non é detto. Puoi trovare l’editore che ti dice che il libro lo facciamo e ti chiede cinquemila euro. Sinceramente preferisco metterceli io, il libro lo faccio come mi pare e poi so che da qui in avanti se avrà una promozione o una distribuzione sarà perché sono andato alle fiere, ho fatto le presentazioni, etc. e non che un editore ne ha stampate 500, 600, 1000, quelle che sono, le ha mandate un po’ in giro perché ha l’accordo con la Feltrinelli…
Se arriva alla gente é perché c’é stato un impegno. A meno che tu non sia il grosso nome, che l’editore organizza presentazioni in giro, é il fotografo che deve andare in giro a far vedere il libro.
Nel momento in cui un editore non risponde ad una proposta per un libro non ti viene il dubbio che commercialmente parlando il progetto non vale? A quel punto allora fare un’autoproduzione é un rischio, no?
So benissimo che é un rischio, ovviamente so anche che é un lavoro che puo’ piacere perché facendo vedere la maquette, le risposte sono state positive. Dalla risposta positiva di persone che possono comprarlo alla risposta positiva di un editore che vuole investire, la differenza é ampia.
Un editore investe se sa che poi vende, magari quell’editore la mail neanche l’ha vista, magari l’editore ha detto che questo libro non vende ed é andata così.
L’autoproduzione del libro é qualcosa di nuovo o é sempre esistita?
E’ una cosa nuova, credo, abbastanza recente. Io l’ho fatto perché avevo visto che l’anno scorso, in un progetto molto diverso, il libro fatto con Wu ming, “4” , finanziato con il crowdfunding era andato molto bene sia come distribuzione che come progettazione. I canali ce li abbiamo, li dobbiamo sfruttare. E’ un lavoro sull’Italia, attuale, anche questo é uno stimolo. Anche qui ci ho voluto aggiungere una parte testuale. Per me un libro non deve essere una collezione di immagini, sennò diventa il catalogo di una mostra. In questo ci ho voluto una parte testuale, ho incluso delle cose prese dai social networks. Delle frasi, commenti… ho chiesto ad uno scrittore, Daniele Rielli (Quit the Doner) che ha lavorato tanto su questi temi in Italia di scrivere una postfazione. Lui poi ha avuto l’idea di aggiungere anche i commenti ai commenti. La parte testuale é importante.
Nello scorrere del libro non trovi le didascalie, vedi solo le foto e ogni tanto ti appaiono queste sezioni con i testi, poi in fondo se vuoi ti leggi le didascalie. La base deve essere la foto in un libro fotografico pero’, soprattutto oggi, il libro fotografico deve essere qualcosa di più, qualcosa che va oltre le sole immagini. Per questo mi piace molto il libro che abbiamo fatto con Wu Ming, perché é proprio il testo e immagine che stanno uno dentro l’altro.
Perché secondo te la gente compra libri di fotografia? Che cosa si aspetta?
Si parla di un certo tipo di mercato, e si parla sempre della nicchia della nicchia…
Nicchia della nicchia perché costano tanto i libri o perché non interessano?
La fotografia é una nicchia, un circolino, fatto di tanta gente. Dentro questo circolino ci sono altri circolini, che sono quelli dei libri. Quelli che si fanno il libro da soli, gli editori… all’interno di una nicchia ce n’é un’altra. Si parla veramente di numeri ristretti perché a meno che tu non sia Bresson o Salgado, Capa o Elliot Erwitt, per un libro fotografico più di mille copie é un sogno. La gente secondo me li compra perché c’é ancora la voglia, soprattutto oggi con il digitale, con l’online di avere una cosa in mano, toccare la copertina, toccare la carta, riconoscere che la foto é stata stampata in una certo modo, averlo qui e non su uno schermo… per me che vengo dalla vecchia scuola, ha una sua importanza.
Ma anche per chi viene dalla nuova scuola…
Si lo credo anch’io pero’ non é scontato. C’é stato negli ultimi anni questo boom dei libri fotografici, autoprodotti, piccole edizioni, case editrici indipendenti…
E’ proprio la necessità di diffondere un lavoro che altrimenti resterebbe invisibile se continuiamo ad aspettare il photoeditor della rivista…
Anche perché é un’altra cosa. Un lavoro così su una rivista non lo vedrai mai. Vedrai magari un capitoletto… il lavoro su Berlusconi é uscito in tutto il mondo pero’ é una parte. Difficilmente mi verrà pubblicato il portfolio su una rivista di tutto il lavoro perché per una rivista devi avere una cosa precisa con una news collegata.
Tutto questo é una parte del futuro della fotografia e del modo di diffonderla?
Non lo so, lo spero. Sicuramente é una parte del presente perché negli ultimi tre anni i libri hanno avuto un boom e per un po’ di anni sarà così. Come per tutti i boom sarà poi destinato a discendere…
Non mi sembra che questo boom sia minacciato dalla diffusione di immagini su internet…
No, é una roba totalmente diversa, é un approccio diverso, come dire la pellicola e il digitale. Sono due approcci alla fotografia ugualmente validi ma molto diversi. Per me il libro fotografico rimane l’espressione più alta della fotografia. Non é una mostra, non é una gallery on line, non é un portfolio su una rivista. E’ una roba che ti rimane, la tocchi… pero’ deve essere un prodotto, oggetto fatto nella sua interezza e quindi lì viene fuori il ruolo del grafico, del curatore se c’é. E’ un team.
E essere parte di un collettivo quanto é stato importante per produrre e distribuire questo lavoro?
Sicuramente é fondamentale. L’esperienza dello scorso anno del lavoro con Wu Ming mi ha spronato… e il lavoro si inserisce nella promozione che viene fatta dei nostri lavori sul sito TerraProject. Io sono parte del collettivo e quello che faccio, così come per gli altri, é sempre parte del tutt’uno. Se fai tutto questo, ci saranno dei periodi in cui di foto non ne fai molte. Punto ad avere una cosa che poi rimane, é un biglietto da visita. Magari lo vendo il libro e ci riprendo le spese, ma non ci guadagnerò ovviamente. Di Hotel Immagine ne ho stampati 750, é nulla. L’on line e il web sicuramente mi aiutano a farmi conoscere da chi magari il libro non lo vedrà perché l’intervista su Vice é stata condivisa centinaia di volte su Fb. Ora, non ho idea di quante persone l’abbiano letta pero’… il web é un mezzo di promozione.