di Andrea Semplici.
I ceci devono essere fatti bollire fino a quando non diventano teneri. Il sale va aggiunto solo a fine cottura. Scolateli, ma conservate una parte dell’acqua di cottura.
I ceci devono essere pestati (ma se non avete pazienza, si possono, naturalmente, frullare a bassa velocità) con gli spicchi d’aglio, il succo di limone e la tahinah. Aggiungete un pizzico di sale e l’acqua di cottura, se è necessario. L’impasto deve trasformarsi in una crema densa e senza grumi.
Una volta versata sul piatto, bisogna aggiungere il peperoncino e il prezzemolo tritato. Siate generosi con l’olio d’oliva.
Non mangiatelo con la forchetta, utilizzate il pane. Se non avete la possibilità di procurarvi del pane arabo, tostate il pane casalingo.
250 g. di ceci lessati. 2 spicchi di aglio. 2 limoni. 3 cucchiaini di tahinah (crema di semi di sesamo tostati), un mazzetto di prezzemolo, un pizzico di peperoncino, olio d’oliva, sale.
Make hummus not war
Ho ritrovato questa ricetta in un piccolo libro che io e Mario Boccia abbiamo scritto qualche anno fa.
Qualcosa non mi torna. Ricordo il cuoco. Era Abu Said e noi eravamo a Taybeh, sgangherato villaggio palestinese in una terra che oggi è Israele: si considerava un ‘artigiano’ dell’hummus, giurò e spergiurò che mai avrebbe usato un frullatore per pestare e addensare la crema di ceci (quindi questa ricetta non è sua). Ricordo l’aglio e anche il sapore del succo di limone. La bottega di Abu Said è introvabile fra i condomini scortecciati di questo paese: però se vedete un piccolo corteo di uomini, biciclette e auto girovagare fra le buche delle strade, è probabile che siano diretti lì. L’hummus di Abu Said era una delizia, i catini di plastica colmi di questa crema densa erano uno palcoscenico povero, scalcinato e bellissimo. Ogni tanto scrutavo i volti di chi veniva fino a qui per gustarsi uno dei migliori hummus di Palestina: c’erano sicuramente israeliani che, una volta tanto, mandavano al diavolo i loro pregiudizi antiarabi e, in nome dell’hummus, risalivano fino ai tavoli di metallo di questa bottega grande come uno sgabuzzino. Io avrei scelto Abu Said come mediatore di una pace impossibile.
Poi, giorni fa, ho seguito, per oltre un’ora di piacere, il viaggio di Trevor Graham nell’universo dell’hummus. Trevor è un regista di Sidney. Ha una sfacciata aria a presa in giro. Uno che lo guardi e dici: con questo voglio passare del tempo. Del buon tempo. Make hummus not war è il film di questo attempato regista australiano con l’anima di un ragazzino. Trevor ha girato il Medioriente, da Gaza al Libano, dai vecchi quartieri di Gerusalemme agli insediamenti dei coloni nella Palestina occupata. E’ andato a New York ed è tornato a casa sua, in Australia, per cercare anche oltre gli oceani gli evangelizzatori dell’hummus in terre lontane dalla Mezzaluna Fertile. Ha visitato mille botteghe come quella di Abu Said. Ha incontrato gastronomi, guru della cucina, ebrei tradizionalisti, attivisti politici, pacifisti e guerrafondai. Trevor è un fanatico dell’hummus. E’ un paradosso: come fa un australiano a innamorarsi dell’hummus? Trevor intuisce che la pace potrebbe passare attraverso la bontà di questo cibo così semplice. Sa anche che qualcuno non tollera che possa andare in maniera così facile e allora cerca di incrinare la concordia davanti alla bottega di Abu Said. E’ scoppiata così, nei primi anni del secondo millennio, la guerra dell’hummus. Israeliani incattiviti e allarmati dal successo di un cibo così mediorientale hanno cominciato a rivendicare questa crema di ceci come piatto ebraico. Nel 2008, i libanesi hanno replicato in un tribunale internazionale: ‘Giù le mani dal marchio dell’hummus’. I giudici devono ancora decidere. Intanto qualcuno cerca di gettare benzina anche sopra le ore sacro del cibo. Con poca fortuna, almeno finora: l’hummus è roba seria, non è storia da guerrieri e fondamentalisti. A Gaza, l’hummus ha influssi egiziani. In Palestina, davvero, si ama l’aglio e i gusti più decisi. Gli israeliani abbondano con la tahina. In Libano l’hummus è piatto essenziale della distesa dei mezzè che colonizzano il tavolo di ogni buon pranzo.
Di chi è l’hummus? Gli storici della cucina mediorientale stanno sul vago. I crociati già si sfamarono, nei loro assedi, con l’hummus. Creolizzazione di un cibo. Il sultano Saladino ne era un culture goloso. Una ricetta appare in un libro del XIII secolo. I biblisti tirano fuori erudite citazione da libro sacro. Per secoli e secoli, queste terre sono stati unite dall’Impero Ottomano. L’hummus era il cibo di tutte le comunità che abitavano fra Damasco e il mar Rosso. E allora?
Il cibo è identità collettiva. L’hummus è una religione laica. Una religione felice. Passionale. Trevor si innamora di una giovane donna al Cairo e ricorda i giorni e le notti passati ad amarsi e a strusciare le dita nella crema di ceci. Una cuoca ci prova a paragonare il sesso all’hummus. Non sa decidersi a scegliere cosa preferirebbe all’istante. ‘Entrambi, assieme’, vorrebbe dire. Make hummus not war, appunto. Ricordo i piatti, con un giro d’olio e i ceci ben bolliti ad Haifa (qui si ebrei e arabi stavano gomito a gomito a gustarsi i loro piatti), ad Akko, a Gerico. Ricordo una ragazza che, nei tavoli all’aperto di un bel locale di Haifa, si sedette a un tavolo di distanza da noi. E ancora non l’ho dimenticata. Era ebrea-israeliana? Era araba-israeliana? E chi se ne frega. Stavo mangiando l’hummus e lei era davanti a me.
Trevor ci racconta la Palestina attraverso lo specchio dell’hummus. Ha imparato la lezione di chi vuole sopravvivere nella ferocia a bassa intensità (mica tanto bassa) che sibila nell’aria di questa terra. Cibo e ironia, la sola disperata, vana e irridente difesa. Non servirà, non fermerà le pallottole, ma la gioia di quando ti porti alla bocca (con il dito, con un pezzo di pane, con la pita. Sì, la forchetta è davvero proibita) la crema dell’hummus è più forte di ogni malinconia.
Dai, procuratevi il film e proiettatelo a casa. Invitando i vostri amici ebrei e musulmani. Trovate il dvd in internet. Trevor Graham ‘Make hummus not war’.
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