Testo e foto di Pamela Cioni
Il quartiere di Ard Allawa, come molti quartieri del Cairo, è un groviglio di rumori, luci, persone, auto, biciclette, risciò, venditori, bambini. Ma la caratteristica di questo sobborgo, neanche tanto periferico e raggiungibile con la metro, è l’alta densità di rifugiati. Mi accompagna Taha un giovane avvocato dell’associazione Tadamon, che collabora con l’Unhcr e dà assistenza legale a molti dei migranti che arrivano qui cercando un varco per l’Europa, ma che spesso qui si fermano. Pastoie burocratiche, mancanza di permessi e lentezze delle istituzioni, mancanza di soldi e di prospettive. Tutto questo ferma centinaia di migliaia di persone in questo limbo, terra di nessuno. Senza lavoro , senza permesso, senza diritti e spesso vittime di attacchi razzisti e di violenze e abusi di ogni genere: da parte della polizia, dei cittadini comuni, e soprattutto da parte della criminalità che vede in queste “non persone” la possibilità di sfruttamento e, non raramente, la possibilità di venderle. Ad Ard Allawa ci sono rifugiati etiopi, sudanesi, eritrei e, da qualche anno a questa parte, molti siriani. Si ritrovano in uno dei centri di Tadamon, che organizza anche varie attività. Oggi c’è un film. Normalmente ci sono lezioni di arabo o di inglese. Altre di cucina o di teatro. Le persone che incontro sono tutte molte giovani. Due ragazze che vengono dal Sudan e un ragazzo, Abderhman, che arriva dalla Siria. La stanza cinema del centro è un’auletta con un computer e un proiettore. Per telo il muro. Il film è un film d’azione americano che non conosco. I ragazzi seduti su panche di legno ridono e scherzano tra loro, si fanno foto, mi fanno foto con il telefonino. Abder mi fa vedere tutte le foto che si è fatto in Egitto , con gli operatori del centro, con altri volontari, con dei quadri. Ha degli occhi celesti bellissimi ma sembrano navigare in un luogo insondabile. Sembra un ragazzino anche se avrà trent’anni. In una stanza più sotto Ali Mohammed, detto Abu Leid, sudanese che ha vissuto 40 anni in Libia, sta cercando invece un modo per avere il permesso dall’Unhcr. Arrivato al Cairo da qualche mese, dopo aver trascorso 3 anni nel campo profughi di Al Qadar ai confini con la Libia, ha passato 6 mesi nel carcere egiziano di Marsa Matrou e, infine, è stato rispedito in Sud Sudan. Un uomo triste e provato, mentre parla piange e si tormenta le mani. Dimostra di più della sua età e non sembra ancora credere che tutto questo stia succedendo a lui. Il centro è chiuso dentro un cancello malandato ha scale sporche e luci fioche, ma è l’unico spazio che l’associazione, poco finanziata dal governo e da fondi stranieri che arrivano con sempre più difficoltà alla società civile, è riuscita a trovare. Il direttore, Malhalla, è un ex rifugiato pure lui, calmo e pacato passa le sue giornate nei vari carceri e nei campi profughi, segue i casi delle persone già conosciute e va a scovare altre situazioni particolarmente complesse. Uscire dal centro rituffarsi nel quartiere e riprendere la metro è come scappare dalla casa degli spiriti: quelli che hai visto e con cui hai parlato sono, per tutti noi, per l’Europa e i benpensanti e malpensanti, dei fantasmi.