Testo e foto di Sandro Abruzzese.
Sono andato sul forte austriaco di Rivoli Veronese perché ero certo che lì ci fosse il vento, e perché volevo un orizzonte ampio, in poco tempo, da cui scrutare i miei mulini a vento.
Ci sono andato prima di pranzo, e in macchina avevo il pane e il latte. Poco prima la signora del pane si era sbagliata a fare i conti, e comunque raramente mi fa uno sconto. Ho guardato attentamente lo scontrino. Lo faccio sempre, soprattutto le prime volte che entro in un negozio, lo leggo come fosse una carta d’identità che mi aiuti a decifrare il posto.
Il forte Wohlgemuth sovrasta il passo dell’Adige, a nord di Verona. Questa zolla di mondo ha un nome nobile: la terra dei forti. Fu Radetzky, alla metà dell’800, a farli costruire per scongiurare il passato. Infatti, nella gola di Rivoli Napoleone, con un po’ di fortuna, aveva inflitto una dura lezione agli austriaci. Era la Campagna d’Italia del gennaio 1797.
All’inizio avrei voluto raggiungere forte Mollinary, a Monte. Desideravo ripercorrerne il sentiero, ignorare il divieto di transito e varcare le pareti annichilite di quell’eremo logoro di guerra. E versare anch’io preziosi istanti nel suo abbandono, ospite di una carcassa inerme: piccolo Pinocchio, o vecchio Achab senza baleniera.
Tuttavia i sentieri impervi e la forza di attrazione per l’abbandono, hanno lasciato spazio al desiderio di questo avamposto pensile dalle forme del razionalismo architettonico di Piacentini.
Un cerchio di marmo bianco dal cielo di terra verde, che scruta l’intorno con la sua aria diffidente, in cerca di altra gente che abbia in qualche modo le sembianze della differenza. Ma la guerra è finita, caro Generale, “il nemico è vinto”, e senza onore hanno prevalso i giganti, i quali ci hanno immersi fino alle unghie nell’oceano della tecnica: è rimasto solo Ulisse a tentare invano il ritorno, povero lui, passato da astuto a poco più che fesso.
Salgo sul monte Castello e si vede la Val d’Adige fino a Rivalta, e col volto nascosto dalla macchina fotografica punto alla gola verso Gaium, prima ancora l’ansa del fiume porta a Volargne.
All’apice del colle un uomo sulla quarantina, affabile, fa in tempo a dirmi che viene da Bovolone ed è grafico pubblicitario. Riparte subito e io avrei sperato qualcosa di più da questo incontro fortuito, se n’è andato e mi è dispiaciuto. Ancora avverto lo stupore per il fatto che dal mio agire possa scaturire qualcosa, un incontro, un avvenimento nuovo. Prima accadeva solo il consueto, e io pensavo che tutto il mondo fosse consueto.
Ora seguo maggiormente l’istinto, mi affido ad alcune percezioni. Le stesse che mi fanno desistere dal proseguire adesso. Decido improvvisamente che non ho alcuna voglia di musei della guerra e feritoie, di vessilli lisi e polveriere, artiglieria, caserme, patriottismo.
Abbandono il forte e mi accontento degli dei del vento. A Rivoli le pale eoliche non le avevano mai viste, sono arrivate da poco, ma sembra che gli abitanti già ci abbiano fatto l’abitudine. Mi ero promesso di entrare nel bar del paese, intitolato a Napoleone, come tutto il resto qua intorno, poi ho preferito percorrere una strada secondaria che tirava dritto fino ad Affi.
Le pale mi hanno messo in testa il Formicoso, quella immensa distesa di grano gremita di mulini e vento, tra le puglie e il mar mediterraneo, a un respiro dalla mia valle.
Non è la prima volta che mi sfugge un luogo. Sembra impossibile, lo so. E’ lì davanti, però non ci sei più tu. O non sei lo stesso di un attimo prima. E per incontrarsi occorre essere almeno in due. Rivoli Veronese si è sottratta insieme alle sue duemila anime, e ho conservato solo il promontorio del forte e i nuovi signori dell’eolico.
Mi sono sentito un intruso e ho preferito scendere nella gola infiammata da una luce generosa, allo scavo archeologico della chiesetta di San Michele a Gaium. Una pieve quasi in riva al fiume, recuperata in parte grazie all’impegno dell’associazione Baldo Festival, di Walter Pericolosi, con l’ausilio dell’amico archeologo Luciano Pugliese.
E’ un luogo solo, ha per compagni rocce e anse della Chiusa di Ceraino e l’Adige. Credo di aver finalmente trovato ciò che cercavo. Su questo millenario selciato resuscitato al fango, seduto a margine di una strada ferma, la mia testa diventa leggera e prima di tornare riesco ad annotare alcune frasi sparse:
È poi più tempo di nascondere il volto?
mi manca a volte una persona.
Quando era in vita non era mai l’ora
Prego i limiti di ogni singolo giorno
Per la sensazione inferma di vivere inerme
nella clessidra a tempo piovono macigni
e tu con quel sorriso allergico alla polvere.
Ancora è sempre inverno senza sole,
o dove rimani
seppure in eterno circondato
solo.
Non resta che il tempo per passare alla chiusa, ancora in riva al fiume, una locanda, delle canoe solcano il canyon. Alcuni familiari ricordano un uomo, hanno piantato un Leccio, accadde poco dopo l’armistizio dell’8 settembre.
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Di mestiere faccio l’insegnante di italiano e storia alle scuole superiori.
Poi animatore del blog raccontiviandanti.
Scrivo perchè amo raccontare, dare forma a quello che mi circonda mi fa stare bene. E perchè dopo anni di distanza e lontananza dal luogo nativo, volevo raccontare chi sono diventato nel frattempo, tessera la tela della ri-conoscenza, in qualche modo colmare un vuoto.