Si manifesta in molte e svariati vesti: il vino può essere bianco, rosso e rosè ma se passate al Giglio lo troverete anche arancio. E’ il colore intenso e inconfondibile dell’ansonaco, un’ambra trasparente, lucida, netta, con un sapore secco e un leggero profumo di resina. Paolo Giovio nel 1552 scriveva del Giglio: “insula suavisima vino celebris”, riferendosi proprio all’ansonaco.
Un vitigno che rischiava di venire perduto a causa della filossera e dell’industrializzazione che è passata pure da questo piccolo angolo di mondo e che qui ha voluto dire miniera.
Poi c’è chi per primo ha rischiato, ha dissodato una collina mangiata dai rovi e dagli arbusti, ha puntato sul biologico, sulla qualità per cercare di recuperare il sapore di quel vino d’oro dei tempi dei romani, quando dall’isola verde salpavano 18.000 barili di questo nettare verso la terra ferma.
Sui declivi ripidi del vigneto “Altura”, della famiglia Carfagna, quattro ettari terrazzati, l’uva si raccoglie a mano, perché diversamente non si potrebbe. Si strappano i grappoli dalle grinfie dei conigli che, ghiotti, se ne riempiono la pancia ogni notte. Si strappano i chicchi dalla siccità, dalla pioggia eccessiva, dalle malattie, per riporre i poi le speranze dentro una bottiglia. Nessun tipo di diserbante o concime chimico, solo sterco di vacca, zappatura manuale e inerbimento delle terrazze con trifoglio, fiori e erbe selvatiche.
Da quassù il tempo non ha senso, l’orologio corre veloce o si ferma a suo discernimento. Il mare ti chiama aiutato dal vento. Tutto intorno solo il profumo della terra e delle erbe.
Per essere ricchi basta la possibilità di concedersi il tempo di guardare la bellezza, farsi raccontare le sue storie e poi poterle raccontare ancora ad altri.
Passate al Giglio in una giornata qualunque ma che non sia né di giugno, né di luglio né di agosto. Venite qui per ascoltare la bellezza e bere il suo vino.