Testo di Costanza Chimirri
C’era una volta una ragazza giovane, idealista e anarchica. Si chiamava Caterina e amava cantare. Erano i primi anni Sessanta e la Bueno, figlia di una famiglia di intellettuali e stranieri (ma allevata da Albina, la tata maremmana), si accingeva a percorrere i primi passi verso una ricerca che avrebbe segnato generazioni di musicisti e di etnomusicologi.
Partendo da San Domenico a Fiesole e munita di un registratore portatile, un taccuino, una Cinquecento bianca e il fervore dei suoi vent’anni, Caterina iniziò una perlustrazione che sarebbe proseguita per molti anni, nelle più remote campagne toscane. Ricercava stornelli, canzoni di lotta e di protesta, di lavoro e povertà, ninne nanne, ottave rime, contrasti, sguardi, parole e un contatto diretto con i guardiani di questo sapere ancestrale.
Spoglia di retaggi intellettualistici e pose snob la Bueno si imbeveva della poesia orale e contadina tanto lontana dalla modernità incalzante di quegli anni. I protagonisti delle sue ricerche e canzoni non erano i figli del boom economico bensì gli emigranti, gli sfruttati, i diseredati e i reclusi dei campi maremmani. Tutti comunque abitanti di un mondo ancora brulicante ma senza voce ufficiale che faticava ad esprimersi e ad adattarsi al cambio impetuoso dei tempi e rimaneva più incline a intonare quell’eco, non poi così lontana, delle lotte sindacali e politiche, o le semplici storie malinconiche e private segnate dal passaggio brusco verso il Secolo Breve
È proprio all’insegna del ricordo, nei volti in bianco e nero di tre contadini toscani (subito dopo alcuni iniziali minuti di note suonate in un cimitero) che si apre il nuovo documentario su Caterina Bueno diretto dal giovane regista Francesco Corsi e uscito in anteprima al Festival dei Popoli nel novembre scorso.
Il film di nuovo (e per fortuna) nelle sale dallo scorso 15 febbraio sarà inoltre diffuso anche in alcuni cinema del centro-nord (Perugia, Genova e Sesto Fiorentino) per arrivare, in marzo, a Roma, Milano, Bologna, Torino e Como.
La cantautrice, scomparsa nel 2007, ritorna sulla pellicola attraverso le testimonianze preziose e le ricostruzioni d’archivio audio e video. Il documentario, infatti, è stato realizzato, tra gli altri, in collaborazione con varie associazioni archivistiche, come l’Archivio Ernesto De Martino, quello del Movimento Operaio e Contadino della provincia di Siena e l’omonimo dedicato alla cantautrice scomparsa. La memoria e la lotta politica avevano già segnato anche la precedente opera prima di Corsi, intitolata, per l’appunto, Memorias:un viaggio tra Italia e Spagna sulle orme dei testimoni vissuti durante la guerra civile.
Qui invece Caterina rivive nel fulgore della sua gioventù, nei tratti ruvidi e ironici del suo carattere, tra i tavoli delle osterie di campagna e nel piglio deciso del suo portamento in vecchiaia. Lo fa attraverso gli occhi degli amici, i musicisti che avevano intrapreso con lei i primi passi durante l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano e in quelli, sempre vigorosi ma meno noti, degli ultimi anni sui palchi delle feste dell’Unità.
A riportarla in vita, in tutta la sua dirompente personalità, sono le inquadrature commoventi, perché ravvicinate ma discrete, del direttore della fotografia Andrea Vaccari, sui volti degli amici più cari: Giovanni Bartolomei, collezionista di tutte le copie online della Brunettina, Giovanna Marini, che rivive con noi sul palco del teatro di Spoleto lo spettacolo epico di Bella Ciao e responsabile di aver diviso il pubblico, tra grida e fischi, per il marcato antimilitarismo e Jamie Marie Lazzara, la liutaia di via dei Leoni nelle cui mani stupite riappare, perduta in scatole polverose, una vecchia cartina geografica della Toscana con tracce delle perlustrazioni segrete dell’amica, fra Pelago, Santa Brigida, Razzuolo.
Ma anche il canto generoso e privato di Valentino Santagati che improvvisa alla chitarra, nel chiuso delle sue stanze, un’interpretazione intima e fugace di una canzone di Caterina (giurando però subito dopo che mai e poi mai risuonerà in pubblico le sue canzoni) e quello africano, suonato in Senegal dai mandinkè con Alberto Balia, il più lontano ma forse, il più innamorato tra gli amici dispersi. Bella anche la valorizzazione di alcune registrazioni audio fatta attraverso intelligenti scelte di regia in cui il suono esce da immagini lente di magnetofoni che scorrono riversando vecchie registrazioni di interviste della cantante o altre, sul volto attento e sornione di Bartolomei, mentre ascolta le parole di De Gregori che parla dell’amica e della canzone omonima composta dal cantautore in onore della Bueno