CARRUBO

Il Carrubo

Cercando un ulivo ho trovato un carrubo. E mi sono venute in mente alcune storie narrate attorno a un focolare, una sera d’estate, quando il cielo era talmente buio da far vedere la scia della Via Lattea. E’ un albero antico che nasce nel bacino del Mediterraneo ma si trova bene anche nel Marocco atlantico o in Portogallo. Lo si “coltiva” in Sicilia, lo si protegge in Puglia (con la stessa legge del 2007 con cui si tutelano gli ulivi plurisecolari). E’ una pianta rustica, poco esigente, cresce bene anche dove il terreno è poco generoso, arido o calcareo. Cresce piano e diventa molto vecchio. E’ sempre esistito, probabilmente, nell’aerea del bacino del Mediterraneo: coltivato dai Greci, che lo portarono anche in Sicilia, dove tutt’ora rimane il 70% della produzione nazionale, è arrivato poi fino in Spagna con gli arabi. Il suo nome deriva appunto dalla parola araba kharrub ed anche il suo seme porta un nome importante, arabo: karat, carato, e veniva usato come forma di misura della durezza per i metalli preziosi. E’ una pianta che ha da sempre accompagnato le produzioni agricole perché serviva per dare da mangiare agli animali, con i suoi frutti, ma anche agli umani: una farina speciale si può fare dai semi e una dal frutto ed è stata utilizzata dalle nostre nonne per fare delle caramelle al “cioccolato”. Oggi è un frutto quasi dimenticato ma viene ancora usato per le produzioni dolciarie. Ed ecco la storia. Sotto a quel cielo stellato mio nonno Enrico, davanti a un focolare estivo, acceso per tenere compagnia e scaldare il cuore, mi raccontava del carrubo in fondo all’orto. Gli avevo dato un nome, Armando credo, e avevo chiesto al nonno perché c’era quell’albero così grande e contorto dagli strani baccelli appesi come calze della Befana. La nonna non ha mai preparato le caramelle di carrubo ma il nonno si ricordava di quelle preparate dalla sua nonna. Quinto di sette figli era cresciuto lavorando. I ritmi erano quelli della luna, delle stelle, della terra da arare, dissodare, seminare, ripulire e far riposare. Suo babbo era morto giovane: non si era mai ripreso da una polmonite che gli era venuta dopo essersi rifugiato, per una notte, in un canale fuggendo da un agguato fascista. Più spesso mi aveva raccontato del chilo di pane e dei pranzi fatti di un pezzo di baccalà da dividere in tanti. Adesso mi raccontava di quella caramella di carrubo. Le sue mani enormi e ruvide aprivano con uno scocco il baccello maturo e il frutto grosso e polposo pareva una pedina della dama. “Attenta ai denti”. Il seme è durissimo e ci si può far male facilmente. Ma la polpa è dolce e ricorda il sapore del cacao in polvere. Sua nonna a fine estate, dopo che durante la stagione calda sotto alle sue fronde c’avevano mangiato, dormito e riposato, si apprestava a sfornare quelle caramelle speciali. Il nonno si ricordava il profumo che si sprigionava dalla cucina e la nonna che ungeva il tavolo di marmo con l’olio d’oliva per farci scorrere sopra lo sciroppo denso e bollente. Una volta addensato lo tagliava a quadretti e lo faceva finire di freddare prima di dividere cubetto cubetto e cospargerlo di farina per non farli appiccicare. Le mani del nonno disegnavano cubetti di caramelle nel cielo stellato e a me sembrava di sentire il profumo di quei dolci nelle narici.

La ricetta per delle perfette caramelle di carrubo: 500 gr di carrube mature, 500 di zucchero e ½ litro di acqua.

Mettere in una pentola le carrube spezzettate con mezzo litro d’acqua e farle cuocere fino a ridurre il liquido della metà. Togliere dal fuoco, lasciar raffreddare e passare al setaccio. In una pentola, mettere lo zucchero e farlo sciogliere a fiamma bassa fino a quando assume un colore ambrato. A questo punto amalgamare il passato di carrube (compreso il liquido di cottura) e far cuocere ancora per qualche minuto. Sistemare gli appositi stampini quadrati su di un marmo unto d’olio, versarvi il composto, lasciar raffreddare e avvolgere le caramelle in carta paraffinata per conservarle meglio.

Di Isabella Mancini