Testo e foto di Maira Marzioni
Trieste è un’ascesa.
Chiede al corpo che l’attraversa un’ascensione: dai piedi nell’acqua, alle gambe in salita, fino alla pancia sui monti per arrivare con la testa a due passi dal cielo blu.
L’ho conosciuta dieci anni fa, ci ho vissuto poco più di un anno appena diciottenne, l’ho trovata bellissima già dalla ferrovia che la costeggia, vedendone l’anca di mare bagnata dal sole; poi ci siamo odiate: così imperturbabile, solitaria, adulta, senza sgorbi e sbavature, alle otto di sera già deserta.
La rivedo ora e la riamo un po’.
La sento più affine, più scoperta, più arresa, meno chiusa in casa.
Il mare è il bordo in basso, la tocca, la corteggia e la penetra persino, per mezzo del canale che arriva fino a Piazza Sant’Antonio, taumaturgo, guaritore del fuoco, Sant’Antonio l’egiziano. A destra c’è la cupola d’oriente della Chiesa ortodossa serba, qui il curatore è San Spiridione, pastore
cipriota che scacciava il diavolo dai corpi.
Appena arrivo dalla stazione a piedi mi inoltro sul lungo canale: c’è un supermercato coi tavolini fuori, qui anche persone che vivono in strada si comprano del cibo e lo consumano sedute, con le barche sotto, siamo tutti sulla stessa barca, la trovo civile in questo dare bellezza senza spocchia.
Più in là bar più turistici, alcuni bar antichi, famosi caffè triestini, incontro di intellettuali e signorine. In molti, dell’uso antico del caffè rimane ben poco, ma poco più in là puoi intuire perché James Joyce adorava la pasticceria Pirona, di legno scuro e tenda verde. Dietro al bancone si
intravede la cucina che sembra quella di una casa, c’è una signora più grande d’età e bassa di statura che lavora e le figlie ad aiutarla, sembra un luogo incorniciato in una pagina di libro, uno di quelli che puoi sfogliare ancora, in cui il tempo che ci passa sopra odora di buono.
Sta nello spazio ciò a cui nel tempo devo arrivare .
Compro un dolce che mangiavo sempre quando vivevo qua e che non ho mai più trovato da nessuna parte: lo chiamano crema cotta ed è crema avvolta da un sottile strato di pasta compatta e friabile.
Lo mangio e ripenso a quelle domeniche in cui non sapendo che fare avevo reso abitudine la passeggiata al molo audace e poi crema cotta alla pasticceria sotto casa, un innesto di vita da pensionata dentro a giorni da diciottenne, un tempo lento e scandito dentro l’inquietudine del corpo
e della mente.
C’è il mercato in Piazza sant’Antonio: fiori, verdura di produttori locali, vino e formaggi. Nella mia memoria Trieste ha pochi sapori e ben definiti: radicchio, crema cotta, palline di pane in brodo e zucchine alla griglia, chissà poi perché.
Preparo il palato ad assaggiarla di nuovo.
Si manifesterà densa e decisa dentro a una vecchia osteria, dove si può mangiare a qualsiasi ora e dove ordino una birra piccola e una buonissima polpetta di patate e prosciutto, di un sapore salato e forte. Mentre la mangio ripenso ad un’altra focaccina di patate che mi preparò, quando abitavo qua, la mia amica per l’hanukkah ebraico… avevo dimenticato il candelabro sopra la tv e il pranzo diBabette. Il gusto e la memoria mi fanno riprendere il pomeriggio, mentre osservo al bancone due signori che mangiano gnocchi e leggo sul giornale che il martedì si riunisce il gruppo per gli alcolisti.
Trieste si fa bere e mangiare a qualsiasi ora, un’ attitudine che scalda l’anima, se si tiene a bada il demone, se il fuoco non duole, se il santo lo vuole, Babette raccomandava una luce al giorno e diventa casa tutto attorno. Trieste, se ti fermi su una panchina e la guardi scorrere, sembra a volte Berlino: gay mano nella mano, capelli rasta, punk e birra, sorridenti insieme, sereni, non riottosi, normali variabili; altre volte pare una città dell’Ottocento, ferma tra perfezione asburgica e pantofole slave: vecchiette con le tazze di tè di porcellana, ragazze con il cappello a falda e i pizzi.
È un orlo calamita il mare: anche se piove, devo arrivare in fondo al molo audace, quella lingua di cemento che audacemente entra nell’acqua: il cielo non è limpido, altrimenti vedrei perfetta la linea dell’Italia continentale, di Venezia e poi il sole a morire dentro l’acqua. Questo è uno dei bordi più
belli d’Italia, qua c’è una delle finali, cambia assetto il paese e la lingua si scompone. Come tutti i bordi è poroso, mai definito del tutto, questo fa di Trieste una città intensa, stratificata, multilivello, con più lingue dentro. C’è la panchina in fondo al molo, su cui ci si può sedere a contemplarne un
lembo, uno dei tanti, quello più facile, perché adatto a piedi in pianura.
Mi dicono che al porto vecchio dove c’era il mercato del pesce c’è stata poco tempo fa una mostra di Kounnelis. Leggo che quella che era la pescheria, la pancia odorosa e saporita della città, si chiama ora Salone degli Incanti, forse proprio a ricordare l’incanto di una città che sa di mare, che
porta il pesce buono dentro le case del pescatore, del signore e pure del bibliotecario. L’artista greco ha portato in scena un relitto, le pietre, le corde, ricordo di mare, porto franco che rinfranca se si tengono a bada i demoni… siamo tutti nella stessa barca, ora nuota, ora arranca.
Torno indietro.
Piazza Unità sfoggia grandi occhiali firmati Assicurazioni Generali, non trovo interesse a guardarci attraverso, non è la mia misura; la città non mi dà fiato se la penso così assicurata, ho bisogno di cambiare sguardo, non prima di un ricordo però. In questa piazza in faccia al mare ho l’unica
immagine di bora della mia vita: la bora mi dava ilarità, persino le cicche delle sigarette non stavano ferme nel cestino e tornavano indietro, un vento ai miei occhi anarchico e ridanciano, che rovescia quello che con fatica si vuole tenere dritto, un cavallo impazzito in libertà, blu come la
rivoluzione che verrà.
Entro nel cuore vecchio, verso Piazza Cavana. Qui lo sguardo è invitato a farsi le domande, i piedi a camminarci dentro, non c’è posa da mantenere, si può essere meno eleganti, cambia il ritmo della città. La signora pazza è seduta nella panchina di fronte a me, piove sottilmente ma non ce ne
curiamo, fumiamo una sigaretta a specchio, tiriamo fuori tutte e due un libro senza reale desiderio di leggerlo, una scusa, una come tante, per vedere se lo specchio funziona. Folle lei, folle io, chi passa tra noi non sa chi guardare, nel dubbio non guarda, mira al pavimento. Mi domando se Trieste sa guardare negli occhi la stranezza o necessita sempre di occhiali assicurati.
Ma eccola, dopo poco la vedo di nuovo: città di bottega, amabile e succosa.
Sopravvivono le botteghe dell’arrotino, la vetreria, il falegname, i libri usati accanto a nuovi negozietti come la bottega del piacere dove vendono giocosi profilattici e ironiche lingerie.
Stanno fianco a fianco le vecchie osterie Siora Rosa e i nuovi bistrot con i piatti vegetariani e i tavoli in legno chiaro stile nordico, la bottega per il brunch un po’ francese Chocolat, accanto a un piccolo supermercato Coop che nella tenda gialla è ancora Cooperativa operaia; convivono pareti
sdrucite di palazzi coll’ondoso edificio azzurro di Via delle Beccherie Vecchie.
In queste sopravvivenze Trieste si fa vera, in questi innesti gentilmente sgualciti si lascia affezionare.
Italo Svevo sta accanto a una macchina bianca con la portiera aperta, in piazza Hortis, chissà se se ne andrà o se sta incarnato nella fissità della signora in ciabatte che, sotto la pioggia e senza ombrello, se ne sta seduta in panchina a fare il cruciverba; mi siedo anch’io, accanto a me un
signore di un’età indefinita è più immobile di Svevo, come lui ha una gamba avanti e una dietro, chissà se se ne andrà, se riuscirà a muoversi o preferirà il silenzio dello stare seduto senza batter ciglio, fino a sparire, non visto, non vivo.
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano.
Tra la stasi e il movimento si gioca il destino di una città, tra il conservare e il farsi fluida per accogliere, trasalire, dar posto al tremito.
La biblioteca civica è piena di persone di età diverse, ho l’impressione che sia una città ad alto tasso di lettori, a Trieste le parole di chi scrive stanno dappertutto, nelle strade e nelle case, tra le persiane o le tende…Sono fantasmi o costruiscono la postura dello stare fuori? Parlano solo al cuore o si espongono le parole come panni stesi al sole?
Fuori sulla parete della biblioteca c’è l’avviso elettorale in doppia lingua. Trieste è doppia, si sdoppia; nello spazio per la data della versione slovena però non c’è il nome della città, qualcuno ci ha messo a penna dei punti interrogativi in rosso…Trieste è doppia, ma forse non lo sa, non si
riconosce, si vergogna. Possiede minimo due lingue, due modi di nominare le cose, immagino che se questa soglia desse frutti, sarebbero meravigliosi ancora, forse più di prima.
È il primo maggio e a Piazza Sant’Antonio c’è la manifestazione tricolore, lo striscione appeso al gazebo recita: “Trieste propatria”, l’ingorgo dell’ombelico, l’identità rigida da difendere per cui si costruiscono sempre nuovi nemici, il molteplice da ridurre a uno. Girato l’angolo poco più avanti un indiano pellerossa suona il flauto di Pan, più in là in Via Carducci la manifestazione delle bandiere rosse. Trieste è polimorfa, è un animale immaginifico, uscito da una seduta di costruzione di burattini in cartapesta, se solo lo ricordasse e se ne prendesse cura avrebbe meno paura e sarebbe più gentile, mosaico di patria.
Mi colpisce che la gentilezza è misurata, quella dei camerieri nei bar per esempio, che non concedono molto, ridono a metà, sono veloci anche se c’è poca gente e poi c’è la lingua dei triestini che sembra dura, ma poi si scioglie in espressioni che non te l’aspetti, come “coccolo”, un bon bon
ripieno dentro alle linee dritte del parlare, del muoversi, la lingua bambina dietro la statua di sale.
Salendo più su le facciate conservano le temporalità multiple in cui ha vissuto la città: il poco medioevo, il liberty, i palazzi moderni, spesso li puoi tenere tutti dentro allo stesso sguardo.
L’innesto massimo si ha nell’Arco di Adriano che insemina un palazzo moderno: genera un sussulto allo sguardo, un brivido come una lingua in bocca all’improvviso, come uno sbadiglio in piazza senza mano davanti, sconcio sta l’Arco e rende eccitante la piazzetta intorno, con i bar tra il classico e lo stile spagnolo.
Entro nella libreria caffè Knulp, me la ricordo da un’altra parte, ora ha meno libri, ma è piena di più generazioni ai tavolini che studiano, leggono, ripetono, navigano. Il bar è equo e solidale, il caffè non è l’Illy cittadino, ma Caffè Malatesta, una torrefazione di Lecco artigianale e autogestita.
Sfoglio al bancone una piccola guida anomala ScopriTrieste, una guida sull’arte della città con dentro Saba, Stuparich, Andric; dietro c’è una cartina con le tappe del percorso descritto, che ricorda le mappe della deriva di Debord. Una guida, si capisce, costruita da giovani capaci, che
vuole dare qualcosa di più per comprendere l’arte che attraversa le strade della città. Scopro ad esempio che Trieste è anomala perché senza Rinascimento, dal poco Medioevo si passa allo sviluppo razionalista asburgico del Settecento, e che qua il liberty era utilizzato per edifici abitativi costruiti per la classe media. Città di passioni contenute, libera da romanticismi, votata a una misura esteriore che, come spesso accade, lascia indietro qualcuno, che si fa pazzo, cavallo da soma si carica lo sconcerto cittadino, non resiste al tiepido e al senza slancio, allora che sia di un blu brillante, blu cielo!
Vado da lui.
Per arrivarci bisogna ascendere ancora, fin quasi al cielo, camminare in salita con onestà di ossa è un rito purificatorio e paradossale per entrare nella pancia di Trieste, la città.
Sono tante le strade che salgono, passo accanto al Giardino Pubblico Tommasini: entro e rallento il passo, il laghetto e la statua sembrano quasi orientali, rose rosse per il mezzo busto di Svevo e fiori viola per Joyce, c’è una coppia che legge, dei bambini che giocano, odore di alberi e fiori, esco dal giardino e proseguo, mi aspetta il ventre, io aspetto lui.
Sono diretta al Parco San Giovanni, lì da dove per la prima volta in Italia uscirono i matti dal manicomio.
Attraverso il grande cancello…è aperto, è aperto, è aperto!
Non so dove andare, seguo una ragazza col cane, vedo due signore a sinistra che si occupano di un orto coi filari di viti. Proseguo e incontro mille mondi segnati: profili di facce tracciate su un muro in rovina, le case dislocate e ristrutturate dove stanno il laboratorio, gli uffici, le stanze del centro di salute mentale.
Poi incontro la statua di Cavallo, è una rappresentazione dell’originale, sta ferma e scura quando prima era di cielo ed era vagante, come il circo dei matti, come la nave dei folli. Sta la statua dopo una panchina da pensatoio buddista, prima della scalinata a due braccia.
Qui c’è una pensilina del bus poetica con dentro versi di Zanzotto, Sidran, Vesovic.
Via! Via! È tempo di toglier via questa primavera di pozze di sangue da tiri di cecchino
Correre correre… Sopra la scalinata una statua di ferro è pronta a volare.
Affretto il passo, salgo tra rose di ogni colore, con l’odore della primavera, il fiato è sempre più corto ma la curiosità cresce, sento della musica, so della festa di Radio Fragola e sento di esserci vicina. Quando arrivo a Il posto delle fragole, il respiro è sfinito, un tremito mi corre addosso di
felicità tangibile. Mi siedo nel tavolo colorato, sorseggio una birra, mentre Tracy Chapman parla di rivoluzione.
Qua ce n’è stata una, ho cercato un museo con le foto, ma non lo trovo, volevo vedere, incontro una scritta “la verità è rivoluzionaria”, nell’edificio di fronte alla palestra. Si, la verità lo può essere rivoluzionaria, tutto sta a non temerla, a lasciarsi trapassare senza sprofondare.
Qua Franco Basaglia fece una rivoluzione, da qua un giorno i matti uscirono, scesero in città, si presentarono al cospetto di chi li aveva relegati pazzi, guardandoli negli occhi, mescolandosi a loro, folli loro, folli noi. Marco Cavallo in cartapesta blu uscì utopico la prima volta il 25 febbraio 1973 e con lui la follia si riversò in strada, la città si ritrovò a ventre scoperto.
Trieste fu una discesa quel giorno, una storia al contrario, l’inferno che scende in piazza e che sprezzante si fa festa, non festa in maschera, ma festa smascherata, smostrata. Fu festa senza trucco, folli loro, folli noi, folle la città, i suoi figli, le sue figlie.
Mentre sto seduta, sento qualcuno che mi saluta, rispondo e mi giro.
Lui è un uomo di un’età indefinita, ha gli occhiali, la pelle segnata da rughe oblique, il dito della sigaretta marrone scuro. Apre il suo pacchetto mentre mi guarda, toglie la plastica, ne prende una, mi domanda l’accendino, lo prende, se l’accende e inizia…Tiene le dita sulla punta infuocata della sigaretta, è un’unica boccata la sua, non c’è riposo in quel fumare, è un consumo senza mezze misure, senza filtri eppure arriva in un attimo il filtro arancione…allora si ferma, stacca le labbra, mi guarda e mi domanda: «La spengo ora?», dico di si. La scena è conclusa, la vita-teatro. La si può consumare tutta d’un fiato? Partecipare alla vita è teatro o estremismo della passione? Si può chiamare questo teatro? Mi chiede un sorso di birra, da dietro la ragazza che lo accompagna sorride, invita Claudio a prendere i suoi soldi e ad andarsela a comprare una birra, se la vuole. Prima sarebbe stato impensabile per Claudio avere i soldi e mostrare la sua mania davanti a me, a chiunque, a se stesso, prima che il cavallo imbizzarrito scendesse in città, prima che la città si togliesse gli occhiali assicurati, Claudio li ha rotti e se li è mangiati.
Mi raggiungono i miei amici, non riesco a staccarmi facilmente dalle rose e della fragole, ma la salita non è ancora finita, c’è un ultimo passo nell’ascesa, mi accendo una sigaretta e mi preparo, tutto l’Ospedale psichiatrico di San Giovanni era chiamato la Montagna.
Ora c’è il Carso da toccare: il cibo di montagna, le case alpine, Opicina, i santuari, il Carso dei partigiani puntellato di bandiere rosse appoggiate a spunzoni, sventolano al cielo, onore al vento, all’essere liberi.
Via! Via!
C’è anche il sentiero dei poeti tra i monti, rendono la roccia friabile, scavano ferite feritoie di parole nella durezza. Tra Carso e Caos c’è Srecko Kosovel che è morto a ventidue anni.
L’ascesa la finisco con lui, lui per me è il confine di questa città, piedi nel mare e testa sui monti, lui per me è l’anima di lei.
Il cuore-Trieste è malato.
Per questo è bella Trieste.
Il dolore fiorisce nella bellezza.
Il cuore di Trieste inizia le storie da dove la terra impazzisce e finisce.
Maira Marzioni, nata a Chiaravalle di Ancona il 17 agosto 1980, leone. Vive in Salento da quattro anni, raccontatrice di luoghi, donne, terra. Ha dato vita a un’azione poetica: “Battiparole di strada” in cui regala ritratti di parole ai passanti in cambio di uno sguardo, con una Olivetti lettera 32 e timbri autoprodotti. Ha collaborato alle pagine culturali de “Il Paese Nuovo” con la rubrica “Approdo a Sud”, scritto e pubblicato “Storie Terragne”, Ed. In alto a sinistra con il disegnatore Gianluca Costantini (Vincitore del Bando Principi Attivi, Regione Puglia), “Fimmine fimmine, il teatro della vita. La raccolta, la tessitura, il vento”, Ed. Spagine, Fondo Verri con le attrici Caterina Pontrandolfo e Assunta Zecca, “Sempre stata. Un mese ad Aliano”, interamente autoprodotto sull’esperienza di residenza temporanea ad Aliano, paese in provincia di Matera.