Testo di Alessandro Tasinato
Alle presentazioni del mio romanzo se a chiedermi una copia autografata è uno studente, ci tengo a dedicargli la frase seguente: «La verità è di chi la racconta». Da autore di un libro fortemente legato al territorio è come se volessi da un lato mettergli in luce il potere di chi, anche attraverso i mass media, ne conduce ogni giorno la narrazione; dall’altro esortarlo a farsi egli stesso artefice di una propria versione della realtà. Come io stesso, scrivendo “Il fiume sono io”, ero riuscito a fare.
Volevo raccontare la Rabiosa, il fiume che attraversa le province di Vicenza, Verona, Padova e che dagli anno ’60 subisce gli scarichi del distretto conciario di Chiampo Arzignano. E scoprire perché questo fiume morente aveva perso addirittura il suo nome, oggi omesso dalle etichette di google maps.
Inizialmente la mia idea era quella di scrivere un saggio. Avevo a disposizione la storia con le sue innumerevoli fonti tra cui una preziosissima carta catastale di metà Cinquecento, un immenso acquerello dipinto a mano su centoventuno tasselli di lino (oggi visitabile al Museo Civico ed Etnografico Corrain di Stanghella) da cui avevo tratto l’originario nome del fiume. E i rapporti di monitoraggio elaborati a partire da fine anni ’90 dalle allora neonate Agenzie per la Prevenzione e Protezione Ambientale, che attraverso parametri chimici e indicatori ecologici mostravano la discrepanza della qualità delle acque della Rabiosa rispetto agli obiettivi sanciti dal legislatore. Ero convinto, inoltre, che la mia laurea in Scienze Ambientali mi avrebbe fornito le competenze più adatte a condurre l’indagine. Invece, dopo anni di bozze, non avevo partorito che un testo già morto.
Mancava la relazione. Mancava una voce che raccontasse il legame col fiume e in che modo il rapporto con i suoi abitanti si era sfaldato. L’idea di trasformare il saggio in romanzo mi è venuta proprio per colmare quel vuoto.
Ho individuato perciò la voce narrante di Nino Franzin alla quale ho affidato – tra l’altro – le testimonianze orali raccolte nelle numerose interviste agli abitanti del posto (anch’esse parte integrante della ricerca propedeutica al libro). Una voce incarnata nel quotidiano, nel vissuto comune di oggi, che anziché raccontare una trama complessa si limitasse ad accompagnare la già di per sé complessa lettura delle trasformazioni ambientali, intrecciando dati e informazioni di carattere tecnico-scientifico col proprio vissuto ordinario.
Nino vive l’infanzia negli anni ’80 in simbiosi con la Rabiosa che lo accoglie tra gli argini e lo mette in contatto con piante e animali. La giovinezza, animata dall’impegno civile nell’associazionismo per la tutela del fiume del cui inquinamento è testimone. L’età adulta, esito di un percorso che lo allontana fisicamente dalla Rabiosa prima per conseguire la laurea, poi per ottenere un lavoro. E’ proprio in questo suo concentrarsi sulla propria sfera privata, questo suo focalizzarsi sul realizzare un’ambizione – legittima sì – ma in ogni caso sua, personale, che Nino scopre l’inganno: alla soglia dei quarant’anni si accorge di aver dato le spalle alla Rabiosa.
La maturità, pertanto, Nino la realizza ritornando fisicamente tra gli argini. Lì intesse una rinnovata simbiosi col fiume. All’antico e ormai superato rapporto con quello che rappresentava il fiume-madre si sostituisce una più consapevole relazione con ciò che diventa il fiume-sposa. Un legame fondato sulla promessa di amarlo e onorarlo (come Nino imparerà dal rito del matrimonio cristiano) a partire dal fatto di restituire al fiume la sua dignità. Una promessa, del resto, stabilita dalla Direttiva Quadro sulle acque recepita a inizio millennio anche in Italia: risanare i fiumi a uno stato ecologico “buono” (sarà lo stesso Nino a raccontare – facendo riaffiorare anche qui l’iniziale spirito investigativo del saggio – come il matrimonio col fiume non è soltanto un impegno suo personale ma è sancito nel nostro ordinamento giuridico e riguarda un’intera collettività).
In questo senso «la verità è di chi la racconta» esorta a ripristinare un legame fisico col proprio territorio, a viverne empiricamente il contatto diretto e a costruire – attraverso le chiavi di lettura che la scuola può dare – una visione di se stessi pienamente integrata, consapevole e responsabile.