Testo di Silvia Chiarantini
Foto di Alessandra Cinquemani e Silvia Chiarantini
Per qualcuno saranno ancora impressi nella memoria i racconti dei compagni di scuola che, negli anni ottanta, facevano le vacanze studio a Londra. A parte la gioia di trascorrere un mese di libertà respirando l’aria della grande metropoli, quello che gli adolescenti raccontavano, appena tornati a casa, era un ritornello sempre uguale: sgomento per i bagni con la moquette e disgusto per il terribile cibo british. Si raccontava di zuppe in scatole di latta aperte e rovesciate nella scodella, traballanti gelatine, burro presente in ogni dove, pasticci dall’indefinito sapore ripieni di indecifrabili ingredienti.
Racconti che sembrano non trovare più alcun riscontro nella Londra di oggi: una città che vanta la presenza di ristoranti rinomati, organic cafes o veggie pubs, chef che aprono qui i loro bistrot ed un generale entourage di attivisti del cibo che hanno a Soho, Notthing Hill e nei quartieri più chic le loro cucine attrezzate per il recipe development. Una nuova identità, quindi, per la gastronomia britannica, ben lontana dai tempi dei fast food e del fish & chips.
Addirittura il National Geographic ha conferito alla città di Londra il primo posto nella classifica delle “21 best food cities around the world” per le infinite possibilità che offre ai suoi visitatori di vivere piacevoli food experiences.
Quello che colpisce di questa città è la varietà delle cucine internazionali, in primis di quelle dei paesi che fanno parte della storia coloniale della Gran Bretagna. Possedimenti, domini, mandati e protettorati della Corona sembrano ripercorrere al contrario il viaggio tracciato dalla potenza coloniale, insediandosi intorno a Buckingham Palace, con falafel, curry, tandoori, noodles e hummus.
Furono i ristoranti bengalesi ed indiani i primi a far capolino sulla scena gastronomica londinese. Nel 1810 fu un commerciante bengalese ad aprire la prima Coffee House con prodotti e ricette dell’oriente intuendo l’interesse dei britannici per i prodotti delle colonie, primo fra tutti il curry che, oggi, sembra diventato un prodotto tipico britannico. La medesima sorte toccata all’altro prodotto esotico per eccellenza che non ha alcun legame con il territorio britannico, ma che è ormai parte integrante della cultura e dello stile di vita british: il tè.
Negli ultimi anni è la cucina mediorientale a dare ampio sfarzo di sé, proponendo i piatti di quei vasti territori, dal Mediterraneo al Golfo Persico che, all’inizio del secolo scorso sono stati governati, amministrati, tagliuzzati e ricuciti dalla Corona britannica.
E’ stata soprattutto la Palestina a soffrire questa triste sorte di frammentazione e, in parte, di dissoluzione, iniziata proprio con la fine della Grande guerra.
La Francia e la Gran Bretagna poterono uscire vittoriose dalla Grande guerra anche grazie al sostegno delle popolazioni arabe impegnate ad arginare l’esercito turco in territori aspri e desertici. Indimenticabile la bellissima quanto estenuante sequenza dell’attraversamento del deserto della sgarrupata guarnigione di beduini guidata dal sottotenente gallese Thomas Edward Lawrence per espugnare Aqaba ai turchi.
In cambio del sostegno arabo durante la prima guerra mondiale, le potenze dell’Intesa dispensavano promesse e il sostegno alla creazione di una Grande Arabia che unisse tutte le genti dalla Siria alla Mesopotamia fino alla penisola arabica e all’Egitto. In realtà la storia ci racconta qualcosa di diverso.
Con i segreti accordi franco-inglesi del 1916, detti Sykes-Picot dai cognomi dei due negoziatori che li firmarono, fu stabilita la spartizione dell’Impero ottomano tra le due potenze: la Francia avrebbe avuto influenza esclusiva su un’area che andava dall’attuale Siria al Libano sino all’alto Iraq e alla Gran Bretagna sarebbero spettati i territori dal sud della Mezzaluna Fertile alla Palestina fino al Golfo Persico. Questi accordi saranno poi in sostanza ratificati con uno dei primi atti della neo-costituita Società delle Nazioni.
Attraverso l’istituto giuridico del mandato si sarebbero dovute accompagnare le popolazioni liberate dal giogo ottomano ad una forma indipendente di autogoverno, così almeno veniva dichiarato all’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni: “Alle colonie e ai territori che in seguito all’ultima guerra hanno cessato di trovarsi sotto la sovranità degli Stati che prima li governavano, e che sono abitati da popoli non ancora in grado di reggersi da sé, nelle difficili condizioni del mondo moderno, si applicherà il principio che il benessere e lo sviluppo di tali popoli è un compito sacro della civiltà, e le garanzie per l’attuazione di questo compito dovranno essere incluse nel presente patto”.
Nel 1920 fu quindi attribuito all’Inghilterra il cosiddetto “Mandato britannico sulla Palestina”, che riguardava inizialmente anche l’area della Transgiordania, ma che poi fu limitato ai territori tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, area strategica per garantire alla Corona il controllo di Suez.
Le popolazioni arabe insorsero di fronte a tutte queste frammentazioni non accettando che potenze straniere avessero titolo di definire il destino dei territori e delle genti che vi risiedevano. Particolarmente imponente fu la reazione del mondo arabo di fronte alla frammentazione di quella che era definita “la grande Siria” Bilād al-Shām che comprendeva Libano, Siria, Giordania e Palestina e che si ritrovò divisa in aree sotto mandato britannico e francese.
In un momento in cui la sicurezza dell’impero britannico dipendeva dalla sua flotta navale, che dipendeva dal carburante, che dipendeva dal petrolio, furono soprattutto le risorse petrolifere di Mosul e Baghdad oltre alle protezioni strategiche necessarie per la regione dell’India, le basi su cui venne definita questa frammentazione nonché il consueto gioco delle parti tra Francia, Gran Bretagna, Germania e Russia.
Non si tenne conto invece, di quella che sarebbe stata una divisione o unione naturale, fondata sul criterio etnico o religioso o sull’esistente organizzazione di villaggi, popoli, comunità e sulle loro legittime aspirazioni.
Trascorsero così trenta anni di un’amministrazione britannica che avrebbe dovuto garantire l’autodeterminazione della popolazione palestinese esistente, ma che invece elargiva promesse per la creazione “di un focolare ebraico in Palestina” facilitando l’immigrazione ebraica di massa, sebbene poi fosse pronta a limitarla, quando le tensioni con il mondo arabo rischiavano di compromettere i propri accessi alle risorse energetiche della Mesopotamia. Se infatti nel preambolo del Mandato si dichiarava che “nothing should be done which might prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine”, nelll’articolo 4 si prevedeva la cooperazione con l’Agenzia Ebraica, uno dei principali organismi responsabile del colonialismo d’insediamento in Palestina.
Nel 1948, di fronte al continuo inasprirsi del conflitto tra arabi ed ebrei, l’esercito britannico tagliò frettolosamente la corda decretando la fine del mandato e lasciando dietro di sè, da un lato un nascente stato ebraico e dall’altro una Palestina anelante a una sua indipendenza… da tutti!
Così, dai tempi della fine del mandato britannico, la Palestina continua a rivendicare la propria terra e continua la propria lotta identitaria. Una lotta che oggi passa anche attraverso l’affermazione di una propria tradizione gastronomica.
Sullo scacchiere gastronomico londinese è la cucina palestinese a rappresentare la novità e ad animare la scena culinaria della capitale britannica, rivendicando, anche attraverso il cibo, terra, libertà e cultura.
Quella libertà e indipendenza promessa ai palestinesi non si è realizzata nella madre patria Palestina e, dunque, qualcuno è venuto a riprendersela a Londra.
Un’espansione che ha visto l’apertura di nuovi ristoranti, il successo di chef palestinesi e l’arrivo nel mercato editoriale anglofono di decine di cookbooks.
Un successo editoriale internazionale dovuto anche all’interesse di quel popolo palestinese della diaspora sparso in varie parti del mondo – a cui, proprio a causa di questa loro origine, è molto spesso interdetto l’ingresso in Palestina – che, anche attraverso la cucina, manifesta il desiderio di riconnettersi con le proprie origini, conoscere e conservare con orgoglio la propria cultura.
Il primo testo di cucina palestinese è uscito nel 2000 per la casa editrice londinese Saqi Books dal titolo “Classic Palestinian Cookery” scritto da Christiane Dabdoub Nasser. Un libro privo di foto, ma ricco di contenuti sulle tradizioni e le occasioni legate al cibo.
Dopo più di dieci anni è stato pubblicato “The Gaza Kitchen” di Laila El-Haddad e Maggie Schmidt che, forzando pregiudizi granitici che legavano questo lembo di terra solo a narrazioni di fondamentalismo e distruzione, parla della vita nella Striscia di Gaza e dell’importanza del cibo proprio quando si è nella condizione di profugo e costretto a vivere sotto una continua minaccia della propria esistenza.
E’ seguito nel 2014 “Olives, Lemons & Za’atar” di Rana Bishara, chef palestinese che ha aperto un elegantissimo ristorante a Brooklyn che si chiama “Tanoreen”. Le ricette che si preparano in questo locale sofisticato e denso di atmosfere arabe sono state pubblicate lo scorso anno nel secondo libro dell’autrice dal titolo “Levant”.
In italiano, è arrivato, nel 2016, “Pop Palestine. Diario di viaggio nella cucina popolare palestinese” che ha proposto una narrazione colorata della Palestina, portando a corredo delle ricette tutto quel patrimonio culturale, spesso dimenticato dai media, fatto di letteratura, artigianato, archeologia. E’ poi uscito “Plated Heirlooms. Stories & recipes through Generation of Palestinian Cooking” di Dima Al Sharif che raccoglie, in più di 500 pagine, foto e storie della tradizione culinaria palestinese e della famiglia dell’autrice costretta a fuggire in Giordania nel 1948.
Segue il libro della chef londinese di origine palestinese Judi Kalla “Palestine on a plate” a cui si è aggiunto un suo secondo volume, sempre sulla cucina palestinese, dal titolo “Balady. A Celebration of Food from Land and Sea”.
Nel 2017 è uscito “The Palestinian Table” di Reem Kassis, autrice nata a Gerusalemme, ma residente negli Stati Uniti.
E’ dello scorso anno “Zaitoun: Recipes from the Palestinian Kitchen” della londinese Yasmin Khan.
Infine, Sami Tamimi – chef palestinese residente a Londra, autore insieme allo chef israeliano Yotam Ottolenghi del best sellers “Jerusalem” – pubblicherà a marzo 2020 un suo ricettario dal titolo inequivocabile: “Falastin” !
A questa ondata editoriale (dal grande animo femminile) si accompagnano, nella capitale britannica, serate tematiche sulla cucina palestinese. In voga negli ultimi anni i supper club. Una modalità di organizzare cene nata trasformando la propria abitazione in una piccola trattoria dove ospitare avventori sconosciuti per celebrare un menu particolare e socializzare. I supper club si tengono anche in ristoranti che ospitano chef ogni sera diversi o in locali che di giorno hanno le più disparate destinazioni e che a fine giornata vengono allestiti con tavole imbandite. Protagoniste indiscusse dei supper club sono la chef e autrice Judy Kalla che estende il suo attivismo anche attraverso l’account instagram @palestineonaplate che conta 100mila follower e le serate della chef Nisrin Abuorf @zaaddinnerclub .
Ad accompagnare questo fervente attivismo gastronomico si uniscono anche numerosi ristoranti e lo street food palestinese che, in linea con il momento di massima espansione della cucina vegana o vegetariana, propongono menu salutistici e saporiti piatti a base di verdure come richiede il mercato del momento.
Un buon caffè, accompagnato da un ma’maoul, i biscottini di semolino e frutta secca lo si può degustare al Café Palestina, nella zona di Camden, nella parte nord della città. Non è solo un caffè, ma anche un progetto di solidarietà con cui raccogliere fondi attraverso le vendite del bellissimo shop dove si possono acquistare le ceramiche di Hebron, il sapone fatto con l’olio di oliva di Nablus, mentre sul retro c’è una piccola biblioteca con testi storici e politici sulla Palestina. Ogni mercoledì vengono organizzate proiezioni di film ed incontri e ci sono spesso supper club della chef Nisrin Abuorf di Zaad Dinner Club.
Molto elegante e dall’atmosfera calda e accogliente è il ristorante Maramia, ottimo da visitare per fare una sosta dopo la lunga visita al Mercato di Portobello. Il menu è quello classico, ma la presentazione dei piatti è ricercata e innovativa.
Chi ha portato a Londra la più originale cucina palestinese è però Hiba, una catena di sei ristoranti gestita da un giovane imprenditore palestinese dalla passata carriera di regista. Sedendosi da Hiba si respira l’aria di Palestina e la gestione familiare contribuisce a restituire la realtà dell’accoglienza e della generosità tipica palestinese (Hiba, in arabo, significa “sorpresa per qualcosa di piacevole” o “regalo”). Alcuni locali sono arredati con fotografie di panorami di Gerico, Betlemme, Gerusalemme, Ramallah e il menu non inganna: qui si cena in Palestina! Le ricette sono quelle della nonna del proprietario, sempre attiva nelle cucine di Hiba per preparare i piatti del suo villaggio di origine che si trovava al confine tra Palestina e Libano. Lo knafe di Hiba è uno dei più autentici che si possa gustare fuori dalla Palestina grazie al formaggio akkawi che viene prodotto in una fattoria inglese e che riporta al gusto di quello originale.
I falafel non ingannano: al loro interno, il prezzemolo fresco aggiunto in quantità garantisce il colore verde che contraddistingue i falafel palestinesi. Mutabbal batinjan, la salsa di melanzane affumicate, e l’hummus sono squisiti e, addirittura confezionata in piccoli contenitori take away, si trova anche la salsa toum, una maionese bianca a base di aglio che, ci confidano nelle cucine, preparano aggiungendo anche patate e porri. Nel menu si trova anche il musakhan, una delle ricette più gustose della tradizione preparata con pane morbido, cipolle caramellate, pollo e tanto sommacco (una spezia dal colore rosso scuro e dal sapore acidulo). La musakhan è un orgoglio del proprietario che, argomenta, sia originario della cittadina di Tulkarem, un villaggio del nord. Sicuramente è un piatto del nord della Palestina, ma sfido chiunque a trovarne esattamente il villaggio di provenienza anzi…. per ciascun palestinese l’origine del musakhan è la propria città natale.
Se il mandato britannico sulla Palestina ha rappresentato una cocente delusione rispetto alle aspirazioni di libertà e indipendenza, è oggi a Londra che l’identità palestinese si rafforza e restituisce i confini gastronomici di una madre patria in cui il desiderio di riconoscersi quale comunità unita da storia e tradizione diventa gusto, convivialità e, al di la dei confini e della storia, orgoglio nazionale.