Ho una gran voglia di tornare a Napoli, nei posti che ho abitato e vissuto ai tempi dell’università. Mi riferisco alle serate a Piazza San Domenico Maggiore, a Piazza dal Gesù Nuovo, con le spalle appoggiate al bugnato della chiesa a guardare in alto, per vedere la sagoma della statua che, vista da una certa prospettiva, sembra incarnare l’icona della morte. Poi il periodo all’Orientale, quello a Santa Maria La Nova. Oppure i cornetti notturni in Via Tarsia, le birre nella conca a Piazzetta Nilo, il cinema Astra a qualche euro, il lunedì. Ancora, la pizza in Piazza Bellini e il caffè di fronte alla Cumana, a Montesanto. La fiumara di gente che scende verso la Pigna Secca, passa davanti al Vecchio Pellegrini. Insomma, il ventre di Napoli, avrebbe detto la Serao.
Questa voglia me l’ha messa addosso l’ultimo libro di Domenico Carrara, si intitola C’è chi si lamenta della pioggia ed è edito da Homo scrivens, casa editrice partenopea. Quello di Domenico Carrara è un viaggio tra le ansie e i pensieri di una generazione zero. Un viaggio tra città e provincia. I suoi giovani, pur avendo fatto ciò che dovevano, si trovano a galleggiare nei flutti della sfiducia successiva alla crisi economica più grande della nostra storia in tempo di pace.
Mi si è attaccato addosso il suo io narrante silente e sornione. Il suo passo lento che calpesta il terreno della politica nazionale, della disoccupazione, della provincia con le sue contraddizioni, e lo fa senza scivolare. Non lo trovo affatto facile. Domenico pone domande e cerca continuamente il bandolo in mezzo al groviglio di una giungla. Lo fa senza presunzione. Nell’arco di due anni, con un occhio alla politica, e l’altro immerso nel suo mondo, il narratore scava e ascolta. Così incontriamo il calzolaio che non si occupa del presente e crede solo in Geova, poi la lezione dell’uomo-pugno, – “Alcune persone sembrano dei pugni, sono dirette, arrivano alla pancia”, – interlocutore che anticipa le risposte alle proprie domande e colpisce duro, senza pensare troppo.
Più avanti l’ironia lascia il posto all’incontro suggestivo con Don Teodoro, parroco dal cuore francescano: “Dio è debole, è fragile. Questo ce l’ha insegnato Francesco. Ed è così perché l’amore non si impone”. Il Dio di Don Teodoro è quello della pietà per gli ultimi, della miseria e della malattia, della misericordia e fa dire al protagonista che “Se i preti fossero tutti così magari crederei a qualcosa, invece dubito come fa il bambino nella mia testa”. Così si susseguono i personaggi incontrati, compagni di vita, viandanti, artisti, amici incrociati con la propria memoria, con l’amore finito per essere un calesse e la cronaca contemporanea, implacabile, sullo sfondo.
E’ un viaggio inquieto ma attento, profondamente attento. Da cui emergono l’incertezza di un’epoca e la voglia di uscire allo scoperto. E’ costruito su una lingua innamorata della parola, la sua prosa lirica guarda la realtà con gli occhi del cane, proprio come Agata, la cagnetta che spesso segue il narratore a zonzo per il paese nativo. Descrive per cercare, osserva per capire, Domenico. Il risultato è autentico, e lo è perché le sue pagine a volte scorrono e altre vibrano, sono sincere. Le pagine di C’è chi si lamenta della pioggia arrivano immediate, perché sono, semplicemente, vere.
Sandro Abruzzese