visto e raccontato da Yuri Materassi

 

Non un film su un fotografo, ma un film sulla vita è l’ultimo documentario di Wenders su Sebastião Salgado e sulla grande bugia che circonda le nostre esistenze. Sulla bugia che quotidianamente accettiamo, pur sapendola tale.

Vita e morte vanno a braccetto in questa ora e mezzo di bianco e nero. Camminano insieme nel deserto del Sahel, così come in Mali e in Ruanda. Un ciclo che non si interrompe, come nella foto del padre che seppellisce il bambino, morto disidratato, e poi torna indietro riprendendo il discorso, appena interrotto, con l’amico che lo aveva accompagnato alla fossa comune.

La morte come quotidianità, di più: come volontà dell’uomo sull’uomo. La morte nelle guerre, negli stermini etnici. Una morte nascosta alla nostra vita di tutti giorni, perché, anche se in fondo sappiamo che esiste, non può essere mostrata in tutta la sua crudezza. Ma Salgado la vede con i suoi occhi e la fotografa. C’è differenza tra sapere e vedere. E allora si ferma, non riesce più a fotografare per molti anni, è malato adesso che ha visto. Dirà: “non c‘è salvezza per il genere umano“. Soltanto la terapia studiata insieme a sua moglie riuscirà a fargli riprendere la macchina fotografica: non si fotografa più l’uomo, si fotografa la natura. La perfezione al posto dell’animale più imperfetto. Così nasce l’ultimo progetto “Genesi”, che qualche mese fa è passato anche in Italia.

Wenders, attraverso gli scatti di Salgado, ci mostra la normalità del “mulino bianco” contrapposta ai bianchi e neri del fotografo. Il “mulino bianco” non esiste, è una bugia che nasconde ciò che deve necessariamente essere nascosto per poter continuare l’inganno. Nasconde la morte, la sporcizia delle strade. Tutto ciò che non è puro viene messo sotto terra, incendiato, nascosto nei cimiteri sotto lastre di marmo. La vita appare come qualcosa di semplice in questo inganno, il dramma non è contemplato.

Appena esci dalla sala e vieni abbagliato dalla luce dei lampioni in strada, hai voglia di prendere la macchina fotografica ed andare a smascherare tutto questo. Hai voglia di andare a fotografare i tombini, quello che c’è sotto, le discariche, il letame che viene giornalmente nascosto alla nostra vista, perché l’importante è non vedere. Non mostrare.

In realtà il film parla semplicemente di tre generazioni a confronto. Il padre di Sebastiao, che vive nel mondo del “devi fare”. Suo figlio, il fotografo sognatore e viaggiatore, che si arrende difronte agli orrori dell’uomo. La sua rivoluzione si ferma appena vede con i suoi occhi la verità. E poi c’è il nipote, il figlio del fotografo, che si rifugia nell’introspezione, facendosi domande a cui non troverà risposte. Su tutti la figura di una donna, la moglie di Sebastiao. Sempre presente, come un direttore d’orchestra, una giocatrice di scacchi. Di questo parla il film. Ma un buon film ti lascia sempre qualcosa in più della semplice trama, e questo lo è.

Non il migliore film di Wenders, neanche un ritratto di un fotografo ti resta come prima impressione. Ma la visione di un mondo in bianco e nero, vero quanto quello a colori di fianco a tutti noi.