Assaggi di street food palermitano, tra orrori gastronomici e viscere innominabili
Testo di Irene Russo – Foto di Ornella Mazzola
Palermo è il banco di prova dei gastronauti tracotanti, pronti a sfidare la sorte in un corpo a corpo col cibo di strada. A preparare la scena c’è la stigghiola, riconoscibile a distanza per la nuvola di fumo che si ottiene gettando grasso sulla griglia, come richiamo per i clienti. Se si guardano i mozziconi di case bombardate, le esalazioni dense e la gente allegra, sembra che la seconda guerra mondiale sia finita ieri. Lo stigghiolaro intanto canta “Un mondo diverso…”, dimenticatosi del resto della canzone e della terra promessa dove crescere i nostri pensieri. Viene voglia di prendere Palermo a morsi, in ogni brandello di carne, fino all’ultimo quarto che ogni taglio ha scartato illudendosi di ricavare più vita dalle classiche bistecche che da queste sculture di intestino sotto alla luce di una mattina di mercato.Tra i venditori di panino con milza e polmone, c’è chi è partito dalla carrettella per arrivare al negozio, come i fratelli Favata di Porta Carbone. Quando la Cala era tutto un viavai di lavoratori del porto, la milza si comprava a un metro dal mare per mangiarla a colazione alle prime luci dell’alba. Per gli acquisti al volo, una volta dall’auto scendevano soltanto gli uomini mentre le donne rimanevano chiuse ad aspettare. Col tempo le abitudini sono cambiate ma le pentole di rame durano decenni, se si ha l’accortezza di farle stagnare circa una volta al mese.Rocky Basile ha già trecentomila visualizzazioni su YouTube, ma non per questo nega ai fotografi il ghigno western di chi conosce le regole del rione e del mestiere. Il Re della Vucciria, così lo chiamano, bazzicava da queste parti anche ai tempi in cui Guttuso aveva affittato un tavolo alla trattoria Shangai per studiare gli scorci del mercato: nella foto che tiene nel cassetto, macchiata dalle ditate di strutto, il giovane meusaro sta attaccato al pittore, fianco a fianco. Oggi accetterebbe volentieri un ruolo nel cinema, dopo “Tano da morire” e una parte rifiutata perché gli toccava recitare il personaggio del pentito, una gloria difficile da spendere alla Vucciria.
Nella verticale di oscenità in questo viaggio palermitano, l’apice è la frittola: scarti della macellazione del vitello prima liofilizzati e conservati (anche per anni), quindi fatti rinvenire friggendoli nello strutto. Chi la mangia, spesso preferisce restare all’oscuro di questi dettagli, così la reticenza diventa parte del piatto e non è dato guardare nel cesto del venditore: la pietanza è nascosta da uno straccio, sotto al quale il braccio nudo preleva ogni porzione affondandosi nella carne senza svelare nulla. L’avventore aspetta con la cartata in mano, due fogli di carta oleata.Tra i banchi di Ballarò troviamo la quarume, o caldume, tutto quello che c’è nella pancia del vitello dal foiolo alla paiata al lampredotto. Più pezzi metti nella pentola e più gustosi vengono, così il bollito di Gioè va a ruba sul posto e anche da asporto, un tripudio di sapori diversi per ogni porzione innominabile di un misterioso organo ruminante. Prima di andare via, l’importante è ricordarsi di chiedere di più, guardare l’ambulante e domandare senza remore: mi fai assaggiare un altro pezzettino? Chiedere ancora alla strada, un ultimo assaggio delle sue viscere, un altro frammento sacrificato al piacere insaziabile, come se non ci fosse nient’altro da mangiare una volta tornati a casa.