Testo e foto di Isabella Mancini
E’ dicembre. Fa freddo. Il cappello, la sciarpa, i guanti, il piumone, la borsa con i fazzoletti di carta, le salviette umide per le mani, il burro di cacao, la crema, un profumo, due caramelle e un paio di cioccolatini: è quanto ho con me, oltre alla macchina fotografica.
L’enorme memoriale di fronte all’ingresso della fortezza piccola di Terezìn è completamente brinato. Il sole inizia a fare capolino tra gli alberi, tutto brilla. Brillano i sassi sulle pietre tombali, brillano i fili d’erba silenti di questo campo. E’ il cimitero nazionale delle vittime della Gestapo, quelle sterminate nella prigione della piccola fortezza, nel ghetto di Terezìn, e nel campo di concentramento di Litomērice.
Dietro a quelle mura di fortezza del ‘700 le persone sono state trasformate in numeri, si è cercato di cancellare i nomi, i sogni, le speranze, la capacità politica, l’opposizione al nazismo.
Dal 10 giugno del 1940 la Gestapo artigliò questa fortezza trasformandola in un centro di tortura e detenzione di avversari politici, prima, di tutti gli oppositori, dopo. A pochi passi da qui un paesino di settemila abitanti che fu epurato completamente per essere trasformato nel “ghetto esemplare” del Reich, simbolo per eccellenza di una propaganda di guerra volta sia a tranquillizzare l’opinione pubblica internazionale che a gestire nel miglior modo il piano di sterminio degli ebrei. Terezin fece così da collettore, centro di raccolta, di tutti quegli uomini, donne e bambini catturati per essere destinati ai campi di sterminio.
Nel gelo di una giornata di dicembre, quando il freddo entra nei muscoli, rallenta la circolazione, congela la punta del naso i pensieri corrono veloci, l’immedesimazione è immediata, capisci che non avresti avuto modo di resistere nemmeno un giorno nelle condizioni infernali di restrizione e cattività create dalla macchina di morte dei nazisti hitleriani.
Il tentativo di costruire questa indecente contro narrativa con la propaganda rimane indecente anche nella lettura di oggi, settanta anni dopo la chiusura del campo, del ghetto. Tra queste mura sono stati costretti 15mila bambini, solo per ricordare loro, di cui rimangono tracce di memorie quotidiane grazie al lavoro di raccolta dell’insegnante Dicker-Brandeis, mandato poi ad Auschwitz, disegni ora esposti al Museo Ebraico di Praga. Di questi 15mila ne sono sopravvissuti il 10%.
Al Museo del ghetto leggi e rileggi nomi, poi sono troppi e diventano numeri, poi torni a rileggere le storie di musicisti, artisti, attori e docenti che qui furono rinchiusi, costretti a vivere in condizioni disumane, puoi immaginarti le loro mani tendere le corde di un violino, i loro capelli vibrare sotto i tremiti di una risata, le loro voci unirsi in canti, racconti, storie.
Leggi e rileggi, leggi e rileggi perché per quanto tu sappia, per quanto tu possa riportare alla mente quanto è successo e ti è stato tramandato il cuore e la mente non riescono a far pace: l’assurdità e la brutalità di questa piano di sterminio sono stati qualcosa di incredibilmente feroce e inimmaginato. Accettare che la crudeltà, la cattiveria, la violenza non siano appannaggio di un solo pazzo ma strumento di visione del futuro di un gran numero di persone è terrificante. E’ terrificante perché oggi, ancora, può succedere.