Testo di Marco Aime | Foto Andrea Semplici
Il turismo si nutre di geografia, in particolare quello di viaggio, quello “esotico”, che porta il turista lontano da casa ed entrambi si nutrono di immagini. Le immagini hanno una forza di persuasione basata sull’immediatezza, basta vedere un paesaggio, una piazza, un monumento per innamorarsi di un luogo e fare nascere in noi la voglia di andarci. Quanti viaggi sono nati dalla visione di un’immagine? E quante immagini hanno prodotto i viaggi?
Non a caso si sente spesso parlare di “immaginario” turistico e un immaginario nasce necessariamente dalle immagini. In un celebre libro intitolato The Tourist Gaze (Lo sguardo del turista) John Urry spiega come quelli che chiamiamo “luoghi turistici”, sono quelli che più richiamano il pittoresco, cioè le immagini, che un tempo erano quelle dei quadri dipinti e oggi sono quelli delle fotografie. La fotografia è stata fondamentale per la nascita di quello che lui chiama lo sguardo del turista. Fotografare è un modo per appropriarsi di un oggetto, o di uno spazio. Inoltre la fotografia sviluppa la documentarizzazione delle esperienze umane. Un interessante studio condotto al Taj Mahal, celebre tempo indiano, ha rivelato come oltre il 90% dei turisti fotografi quel monumento dallo stesso punto, quello in cui viene rappresentato nei poster e nelle pubblicità turistiche. Così come accade che una persona fotografata diventi icona di un’etnia. In molti casi queste persone perdono la loro “personalità” per diventare più simili a monumenti che a esseri umani e la loro cultura diventa “patrimonio culturale”. Da fattore dinamico in continuo mutamento, la cultura assume così uno status burocratizzato, bloccato all’interno dei parametri scritti che la definiscono.
Ma il turista, una volta partito, da consumatore diventa anch’egli produttore di immagini a uso e consumo suo e altrui e queste immagini non solo danno forma al viaggio, nel senso che diventano la ragione per fermarsi a scattare fotografie, ma contribuiscono a perpetuare quel modello stereotipo che già aveva indotto al viaggio.
Nasce così una geografia “turistica”, fondata su una serie di stereotipi costruiti nel tempo e con un particolare sguardo. Si sono così venuti a creare quegli immaginari di cui tutti siamo a conoscenza: la Parigi romantica, la Venezia malinconica, la swinging London, per non parlare dell’esotismo degli atolli oceaniani o del “cuore di tenebra” in cui sarebbe immersa l’Africa.
La fotografia non è solo un mezzo per rievocare esperienza vissute, ma consente soprattutto di dare vita a una nuova socialità, a nuove gerarchie. L’essere stati là fa parte di una sorta di processo di iniziazione e la foto è una sorta di prova, che legittima chi l’ha scattata nel suo status di viaggiatore. La riunione con gli amici e la proiezione di diapositive sono così diventate riunioni rituali e i racconti di commento alle immagini una nuova forma di affabulazione. Infatti, a casa le immagini si intrecciano con i racconti del viaggio ed è così che si produce la memoria. Quale memoria? Fare fotografia è un modo di attestare un’esperienza ed è anche un modo di rifiutarla, riducendola a una ricerca del fotogenico, trasformandola in un’immagine, in un souvenir.
Un proverbio africano dice che lo straniero vede solo ciò che già conosce. Affermazione quanto mai vera nel caso di molti turisti-fotografi. Le fotografie che vediamo (e scattiamo) assomigliano molto di più a quelle viste sui cataloghi che abbiamo sfogliato prima di partire. Il turismo induce memoria e in un certo modo si appropria della memoria di altri. Così molte delle immagini che consumiamo visivamente sono in realtà il ricordo fissato nella memoria di altri che successivamente viene consumato da noi.
Il poeta francese Stephane Mallarmé diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi, potremmo dire con Susan Sontag, che tutto esiste per finire in una fotografia».