Foto e testo di Valeria Cipolat
Ascolto la radio mentre sto andando al lavoro. E’ in questo modo che la mattina del 6 febbraio scorso vengo a conoscenza del terremoto in Turchia. Scopro solo nel pomeriggio che una delle zone più colpite è Gaziantep. Qualche anno fa era l’unico passaggio di accesso per i rifugiati siriani che fuggivano dai bombardamenti del loro Paese.
La mente va subito al mio ex-collega Mohammad che proprio lì abita con la moglie e i suoi bambini; qualche anno fa, fuggendo dalla guerra, era riuscito a mettere su casa a pochi chilometri dalla sua terra Natale. Apro Skype e vedo che qualche ora prima era online. Gli mando un messaggio sperando che lui e la sua famiglia stiano bene. Mi risponderà a notte inoltrata: “we are good”. Un sospiro di sollievo. Qualche mese fa, in occasione di un viaggio di lavoro in Europa, era anche riuscito a rivedere i suoi parenti più stretti. Sette anni, tanti ne erano passati, prima di poter riabbracciare i propri genitori. Era felice di averli finalmente rivisti, mi aveva detto qualche giorno dopo, ma il Nord Europa e il clima di quei luoghi non gli erano piaciuti per niente. Era contento di ritornare a Gaziantep, dalla moglie e dai suoi bambini, l’ultimo dei quali nato pochi mesi prima.
Ripenso a Gaziantep e a quanto sia vicino al nord della Siria: luogo che avevo visitato nell’aprile del 2021. Controllo su google map: mi trovavo a sole sei ore di auto da quella sfortunata città. Ricordo che la sera, dal tetto della nostra casa, si vedevano nitide le luci di Mardin, un’altra città turca sorta anch’essa a pochi chilometri dal confine.
Del percorso per arrivarci, ricordo perfettamente l’odore pungente di petrolio che impregnava l’aria e le file di camion-cisterna che avevamo incrociato provenienti dalle varie raffinerie che si vedevano lungo tutto il tragitto prima del confine. Le montagne ci avevano accompagnato per tutto il viaggio; correvano parallele oltre i campi arati che vedevamo dalla strada, quasi a proteggerci da quello che c’era oltre e non potevamo vedere.
Guardando dal finestrino, poco prima del confine avevo notato delle capre e più in là qualche pastore che accompagnava il proprio gregge di pecore. Un altro era seduto su una piccola altura che sovrastava la carreggiata. Portava una kefiah e indossava i pantaloni tipici del Kurdistan iracheno. Un bastone in mano e nell’altro forse una mishbaha o subha, il rosario musulmano.
Durante il controllo passaporti al confine poi c’erano moltissimi bambini. Le loro madri per distinguerli, li avevano vestiti con magliette dello stesso colore. L’ufficiale dell’immigrazione del Rojava era una donna bellissima, dai modi gentili. Scherzava con i nostri colleghi maschi, chiedendo loro se volevano trovarsi una moglie del posto. Credo indagasse per un’amica, perché poi ci raccontò di essere madre di una bambina. L’aveva chiamata Bella: “E’ un nome italiano”, ci aveva detto orgogliosa. Era stata lei a comporre con petali di rosa quel cuore che si trovava nella bacheca del tavolino di legno nell’ufficio della madre.
Il controllo dei bagagli l’avevano fatto due ragazze giovanissime che indossavano tute da combattenti e avevano i capelli avvolti nei foulard verdi o neri tipici della regione. Erano state molto delicate nel compiere quell’operazione che comportava l’intrusione nella privacy altrui.
Una volta espletati i controlli, i nostri colleghi ci aspettavano dall’altra parte del confine. Non riesco a descrivervi l’emozione che avevo provato poi nell’oltrepassare il Tigri, un sentimento che nasceva dalla piena consapevolezza di essere al centro dell’origine delle civiltà. Eravamo saliti in auto ed eravamo partiti. Avevamo poi passato l’area petrolifera dove, s’intravedevano pompe dalla forma di pappagalli metallici che andavano su e giù per estrarre l’oro nero. I campi avevano le ferite delle trincee scavate dai combattenti per difendersi dai bombardamenti delle incursioni aeree che ogni tanto arrivavano dalla Turchia.
Avevo notato che i cimiteri erano diversi dai nostri. Si trovavano al bordo della strada o in cima alle colline. Da lontano si scorgevano lapidi bianche. Erano visibili anche a chi non voleva vederli, per ricordare forse il prezzo della libertà.
Lungo tutto il cammino in quella terra di uomini e donne libere che correva parallelo al confine, oltre il campo e prima dell’autostrada e delle montagne, c’era anche un muro bianco che delimitava la frontiera con la Turchia. Mi avevano raccontato che a volte chi si avvicinava troppo, per coltivare i campi o per rincorrere una pecora scappata, veniva ammazzato dai cecchini turchi che stavano sempre vigili.
Avevamo oltrepassato Qamishlo evitando tutte le deviazioni e i check-point di rito e nel tardo pomeriggio eravamo arrivati a destinazione.
All’entrata della città c’era un monumento dedicato alle donne. Appena sorpassato avevo alzato gli occhi e notato una rondine sopra di noi che ci aveva scortato per qualche centinaio di metri.
Credo che questo fosse il modo che aveva trovato l’universo per darci il benvenuto in Rojava.
Monumento alla donna.
C’era un terrazzo sopra la nostra casa. In Medio Oriente spesso le case ce l’hanno. Quando manca la corrente il caldo arroventa le pareti e costringe le persone a uscire; l’unico posto dov’è possibile dormire di notte sono proprio le terrazze delle case. Una mattina ci sono salita presto, volevo spiare dall’alto com’era il villaggio appena destato, prima che il dovere chiamasse tutti a rapporto. Era prevista una giornata nuvolosa, si vedeva solo una nebulosa rotonda e giallognola verso est. Il grigio si prendeva il resto del cielo. Mi avevano detto che quel recinto bianco su cui svetta una stella rossa era il cimitero dei martiri. Sulla stessa linea d’aria invece qualcuno allevava colombe. La sera precedente eravamo saliti lì al tramonto e avevamo osservato ammirati lo stormo regolare di quegli volatili che compiva dei cerchi nel cielo attorno alla casa. Qualche volta c’erano anche degli stormi di passeri o stornelli che volavano vicino. Sembrava volessero prendere in giro quelli addomesticati. Infatti, a volte, qualcuno si confondeva, e dopo essere stati disorientati volavano via dal loro gruppo. Ma l’inganno non durava molto. Dopo poco tempo infatti, resisi conto dell’errore, ritornavano verso casa e si riunivano ai loro compagni. Il canto del muezzin dal minareto faceva da colonna sonora a questo spettacolo. Quella mattina si sentivano anche i galli cantare. Uno rispondeva all’altro e il concerto era durato qualche minuto. Si sentiva anche il rumore di qualche generatore che pompava energia. Una moto passava per la strada principale. Sopra, due uomini imbacuccati con la loro kefiah bianco-rossa. Sfrecciavano verso est.
Passavano davanti al negozio di frutta e verdura che si trovava sulla strada. Due ragazzi stavano disponendo la mercanzia. Il padre (o era il padrone?) li guardava e faceva loro cenni di approvazione. La magia della giusta presentazione. Il dettaglio e la cura nella disposizione di cavoli, pomodori e arance.
Il mio sguardo si era poi spostato verso nord.
Uno dei nostri vicini era un pastore. L’eleganza del lavoro umile era sottolineata dalla giacca che indossava e dal bastone. Con il figlio adolescente si trovava fuori dalla propria casa. Guardava (contava?) il proprio gregge di pecore mentre gli animali stavano brucando degli sterpi lì vicino. Il ragazzo indossava una felpa rossa e il cappuccio lo riparava dal fresco del mattino. Aspettava la decisione del padre.
Allungando lo sguardo, il muro bianco era sempre laggiù, l’autostrada pure. Da quaggiù le auto e i camion sembravano formiche operose. I miei occhi poi erano stati attratti da una donna che si trovava poco lontano dalla nostra casa: il velo le copriva il capo, indossava una camicia lunga color kaki su pantaloni dello stesso colore. Proveniva dalla garitta posta vicino al cancello d’entrata di una grande proprietà. Camminava verso l’esterno della casa che si trovava al centro del perimetro. Aveva qualcosa in mano, era distante e non distinguevo bene cosa fosse. Avevo cercato di mettere a fuoco quella specie di bastone. La donna l’aveva appoggiato con cura al muretto, a qualche metro dal rubinetto a cui si era avvicinata. Con grazia si era poi piegata in avanti per sciacquarsi mani e viso facendo attenzione a non bagnare troppo il velo. Poi era tornata in posizione eretta portando le mani ai fianchi. Infine si era guardata intorno. Sembrava essersi rilassata. La notte era stata lunga, il turno era quasi finito. Prima di ritornata verso il cancello aveva recuperato il suo “bastone”. Ora riuscivo a vederlo bene. Credo fosse stato un AK-47. Sembrava molto leggero, lei lo reggeva con una mano. Dicono sia versatile perché adatto anche a donne e bambini.
Nel frattempo il gregge cominciava a muoversi. L’avevano fatto entrare in un cortile adiacente, delimitato da un muretto di mattoni. Gli agnelli sembravano contrariati: lì non c’era neanche un filo d’erba.
Si erano fatte le sette, tempo di iniziare la mia giornata.
Mi ero accorta che nel nostro giardino c’erano rose di vari colori. Nel pomeriggio ero uscita a passeggiare, c’ero passata davanti e ne ero rimasta sorpresa, perché nel nostro immaginario i fiori non sono certo qualcosa da associare a queste zone che hanno sofferto tante guerre. È più facile pensare a case distrutte, armi, bombardamenti. Eppure… anche se il clima non ci sembrava adatto, in quasi tutti i giardini, spesso, c’era un roseto. Era stato un periodo tranquillo ed era quasi primavera inoltrata; la natura rivendicava i suoi spazi e si stavano preparando “esplosioni” anomale: una rivoluzione di colori.
Era venerdì, non c’era molto movimento. Eravamo ancora in pieno Covid, ed era Ramadan. La luce del giorno si stava trasformando nella famosa golden hour, tanto cara ai fotografi più bravi. Una bimba stava passeggiando davanti a me, pantaloni neri, maglietta con le maniche lunghe, rossa e nera. Aveva i capelli alle spalle e la camminata fiera di chi aveva tutta la vita davanti, ma ancora non lo sapeva. Avevo distolto lo sguardo per pochi secondi, distratta da un auto di passaggio; pochi secondi e la bimba era sparita: doveva aver girato l’angolo. Io continuavo a camminare. Alla mia sinistra due uomini erano seduti all’ombra di una bottega, ne attendevano un terzo che li stava raggiungendo. Era quasi l’ora della preghiera. Indossava una tunica color sabbia. Stava sgranando un rosario. Si erano salutati e il nuovo arrivato si era seduto nella terza sedia vuota. Mi avevano salutato. Avevo risposto al saluto e avevo proseguito. Dopo pochi passi avevo sentito un “hello”; mi ero girata per capirne la provenienza, ero riuscita ad intravedere qualcosa di azzurro, ma era stata più scaltra. La bimba si era già nascosta alla mia vista. Avevo sorriso. Ero l’attrazione del momento. Avevo raggiunto la casa, parlato con la mia collega, definito la questione e poi avevo intrapreso il percorso in senso inverso. Il sole era più basso. Camminavo verso il tramonto.
Le ombre si erano allungate. Lame dorate mi riempivano la vista. Avevo notato un soggetto interessante. Volevo fotografarlo: un vecchio bus scassato vicino alla nostra casa. Mi ero avvicinata, i raggi del sole passavano attraverso i vetri impolverati. A mano a mano che mi avvicinavo, la sagoma era più definita, sembrava viva, sembrava chiamarmi. Il sole che entrava era come energia che poteva animarlo da un momento all’altro. Avevo scattato qualche foto da entrambi i lati. La porta era divelta, dentro c’erano ancora i sedili. Pensavo a quanti fantasmi poteva ospitare, quante storie avrebbe potuto raccontare. Trasportando persone da una parte all’altra del Paese, avrà visto chissà quanti campi sterminati di grano. Da queste parti passava anche l’Eufrate, avrà passato miriade di check-point. Se fossi entrata, avrei respirato la paura che avranno sentito ogni volta i passeggeri? Avrei sentito l’emozione di qualche giovane innamorato rubare il suo primo bacio nei sedili posteriori?
Ero rientrata a casa, ero salita sul tetto. Lo spettacolo di ieri sera si ripeteva. Come ogni tardo pomeriggio, un uomo stava scarrozzando un bimbo sulla sua moto. Lo teneva davanti, sul serbatoio, le braccia l’avrebbero protetto in caso avesse perso l’equilibrio. Gioia pura sul viso del bambino. Non credo avesse avuto più di due anni. Da lontano un altro si era avvicinato correndo. Voleva salire anche lui. Anche lui era piccolo, avrà avuto quattro anni al massimo. L’uomo, credo fosse stato il nonno, aveva fermato la moto. Il più piccolo aveva uno sguardo contrariato. Aveva perso l’esclusiva sull’adulto. Il secondo bimbo era salito dietro, con l’agilità di un gatto, aveva avvinghiato le mani dietro al portapacchi. Erano ripartiti. Il sorriso era ritornato.