Il viaggio verso l’Afghanistan, o verso l’Oriente ancora più estremo, è stato un must dei ventenni degli anni ’70. Un viaggio impensabile oggi ancor più se si pensa che per recarsi così lontano si sceglievano, bus, caravan, autostop, altro che aerei! Viaggi low cost ma soprattutto viaggi immersi con i piedi e con la testa in mondi diversi che non avevano paura ad incontrarsi. Ne abbiamo parlato recentemente a Firenze alla Limonaia di Villa Strozzi in un incontro che è stato molto partecipato e che ci ha permesso di conoscere nel dettaglio i racconti di Maurizio Lipparini, che su questo viaggio ha scritto Lungo le strade che portavano in India, e Marco Reati che pubblicherà ad ottobre il suo L’isola della negazione, ma che ha aperto un vaso di Pandora da cui continuano ad uscire storie, racconti e immagini. Come quelle che ci hanno mandato Aldo e Donatella Boccazzi che pubblichiamo volentieri.

Testo e foto di Aldo e Donatella Boccazzi

Agosto 1976. Quattro giovani appassionati e curiosi, un fuoristrada russo “spartano” ma che non si ferma davanti a niente, 6500 chilometri di autostrade, strade, piste, sentieri. Questi gli ingredienti del viaggio che ci ha portato da Milano in Afghanistan.

Abbiamo attraversato il paese lungo la pista del Nord che collega Herat con Kabul costeggiando il confine con quella che allora era la Unione Sovietica. Il re era stato deposto da poco e tre anni dopo da quel confine sarebbe penetrata l’Armata rossa che invase il paese dando inizio a decenni di guerre.

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La polverosa pista del Nord era la meno frequentata dai turisti: colline denudate dai venti che soffiano fin qui dalla Siberia senza incontrare ostacoli, regno della polvere che rende l’aria lattiginosa, penetra attraverso I vetri chiusi e le palpebre serrate e si posa sui capelli, sulle labra, sui vestiti, dando a ogni cosa lo stesso indistinto colore grigiastro.
Percorrerla ha permesso di incontrare carovane di nomadi kuchi con i loro cammelli, sfilate di personaggi dal sapore medievale, e più moderne carovane di camion coloratissimi carichi all’inverosimile, di fermarsi in modeste chai-kane dove dissetarsi con una dolcissima tazza di tè e una succosa fetta di melone. Unica donna in mezzo a uomini fieri, quasi arcigni, che indossavano lunghi turbanti, camicie dai fitti ricami e berretti luccicanti di specchietti.
Uomini fieri ma capaci di improvvise gentilezze: come dimenticare il poliziotto che, dopo una notte passata in tenda nel cortile della caserma, ci svegliò con un vassoio di pistacchi appena colti?

Dormire ai piedi dei Buddha monumentali che per circa mille anni sono stati il punto di riferimento per gli abitanti della valle finchè la violenza iconoclastica si è abbattuta sui loro visi ma per mille anni ancora da quei visi mutilati ha continuato ad irradiarsi un sorriso misterioso. Oggi, si sa, tutto è andato in briciole per una nuova violenza iconoclasta più totale e ancora più incomprensibile della prima.
Penetrare nella montagna bucherellalata di cunicoli che collegano tra loro centinaia di celle affrescate e piccoli templi rupestri anneriti dal fumo delle candele; arrampicarsi di cella in cella fino a sbucare sopra la testa del grande Buddha e da qui spaziare sulla piana coltivata a perdita d’occhio fino a intravvedere le montagne dell’Hindukush.

Tra le montagne il gruppo dei laghi di Band-i-Amir con i loro colori accesi in tutte le tonalità dal blu cupo al verde giada, contenuti e circondati da depositi calcarei di un bianco scintillante. Un silenzio e una pace assoluti, nessuno tranne noi e una pastorella con il suo gregge. Il suo viso paffuto rivela l’appartenenza al gruppo hazara di origine mongola, da sempre minoranza discriminata.
Oggi a Bamyan c’è l’aeroporto e una città tutta nuova, i laghi sono diventati meta turistica per chi lavora a Kabul e le loro acque sono solcate da … pedalò.