Testo e fotografie di Nicola Pedrazzi

05

Italia e Albania non si sono mai incontrate su un campo di calcio. Lo faranno per la prima volta martedì 18 novembre, nella Genova recentemente alluvionata: “Ci offriamo come strumento per la ricostruzione”, ha dichiarato quel grande vecchio cuore di Carlo Tavecchio.

Che Italia-Albania si giochi per la prima volta nel 2014 è sintomatico di quanto gli italiani non conoscano l’Albania. Un paese espulso dall’immaginario collettivo dell’Italia costituzionale, vergognosa delle fasciste avventure d’oltremare, e ricomparso sulle carte degli strateghi della Farnesina solamente nel 1991. Il muro è crollato, la Prima Repubblica sta crollando, Berlusconi scalda i motori, la nave Vlora approda a Bari e la Lega Nord, nata da appena otto mesi, pregusta futuri exploit elettorali. Alla faccia della fine della Storia.

Che Italia-Albania si giochi per la prima volta nel 2014 è sintomatico di quanto gli italiani non conoscano intere generazioni di albanesi. Persone cresciute senza valide alternative al mito dell’Italia, unica fessura allora disponibile sulla fluorescente e pettoruta opulenza capitalista, che per chi non ne gode si chiama Libertà. Mentre noi, nei trenta gloriosi seguiti al Piano Marshall, compivamo il sorpasso alle cui movenze ci appelliamo ancora oggi per vendere qualche 500 all’estero blaterando di Made in Italy, a Tirana, a quel tempo filocinese (unico paese al mondo!), si girava in bici e carretto, e le bottiglie di coca-cola regalate dal mare venivano esposte – non senza timore, ma con un certo orgoglio – sui sobri scaffali dei seriali salottini comunisti. Forchette, fili metallici, lattine, gli albanesi salivano sui tetti, costruivano antenne, perché l’Italia era là di fronte. I ragazzi nati in Albania negli anni Ottanta (Puffi, Bim Bum Bam, Solletico) sono italiani cresciuti in un altro posto. Quando chiesi a Gjergji, il primo albanese d’Albania che ho conosciuto, se il suo bel maglione fosse nuovo, mi rispose sorridendo: “No, è lavato con Perlana”.

Questo era l’Italia, per i nostri vicini innamorati, nei lontani anni Novanta. Ma a nessun Tavecchio, a nessun Conte, a nessun Renzi del tempo (che bel trio crozziano!) venne in mente di mandare gli azzurri a dar due calci in Albania. Forse perché il Qemal Stafa, lo stadio di Tirana, lo costruì Mussolini, e noi italiani non siamo certo i campioni della rielaborazione storica. Ci mandammo Albano, a riempire lo stadio di Tirana, per essere più sicuri che da noi non avrebbe fatto notizia.

Oggi circa mezzo milione di albanesi vive stabilmente in Italia. Nonne rimaste in patria si iscrivono a corsi di italiano per poter parlare su Skype con i nipotini: albanesi ma di seconda generazione, non più albanofoni. Anche se ha perso i contorni del sogno, in Albania si vuole ancora tanto bene al nostro paese, perché tutti hanno almeno un parente oltre il sale dell’Adriatico. Ancora oggi, si calcola che il 60% degli albanesi comprenda l’Italiano. Sui resti di una sempre più logora egemonia televisiva (che ci ostiniamo a chiamare “linguistica” o “culturale”, dimentichi della tragedia da cui deriva, come se gli albanesi fossero italofoni per passione), imprenditori nostrani con indubbio fiuto hanno costruito la stracciona delocalizzazione dei call center. Mentre gli albanesi degli anni Ottanta, quelli cresciuti a Puffi, Bim Bum Bam e Solletico, telefonano alle casalinghe italiane nate negli anni Quaranta per vendergli pacchetti assicurativi, gli albanesi nati negli anni Duemila difficilmente sanno dov’è Bari o chi è Ciro Immobile. I figli della nascente borghesia tiranese parlano l’inglese, vanno a scuola nei prestigiosi Istituti Turchi, guardano la TV in tutte le lingue del mondo: durante i mondiali tifano Germania perché in Champions League adottano il Bayern di Monaco.

Si è soliti dire che l’Italia ha fatto molto per l’Albania. Vero. Ma un paese con più cuore (e soprattutto con più testa) l’amichevole di martedì l’avrebbe giocata tanti anni fa, a Tirana. Dopo un quarto di secolo di ritardo, a Genova, l’atmosfera non sarà certamente la stessa.

43