Testo e fotografie di Stefano Bartolini

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Forse è la celebrazione della Resistenza più peculiare che si svolga in Italia. Transnazionale, e un po’ sospesa in un tempo tutto suo. A Basovizza, nei dintorni di Trieste, a una manciata di metri dal confine con la Slovenia, tutti gli anni all’inizio di settembre si svolge questo rito che è al tempo stesso una pratica di memoria e un’affermazione forte di identità.

L’area è mistilingue da secoli. Qui si incrociano le culture latine, germaniche e slave, e nella sua storia c’è posto anche per presenze greche ed ebraiche. Le famiglie miste, i salti di appartenenza, la pluralità sono il DNA di questa parte del mediterraneo così appartata. All’inizio del ‘900 il nazionalismo vi scatenò la guerra, che il fascismo si prese carico di portare alle estreme conseguenze. Nell’ottica del regime gli “slavi”, che abitavano come gli italiani queste terre da secoli, dovevano in un modo o nell’altro scomparire. Alla persecuzione politica si sommava quella razzista, linguistica e nazionale. Non a caso qui, quando in Italia l’antifascismo ancora si dibatteva in divisioni e clandestinità, si andavano formando le prime forme di resistenza.

Nel 1930 esplose una bomba al giornale Il popolo di Trieste. I fascisti individuarono come responsabile il gruppo T.I.G.R. (dalle iniziali di Trst, Istra, Gorica e Rijeka – Trieste, Istria, Gorizia e Fiume), un’organizzazione nazional-liberale slovena, irredentista, che lottava contro la snazionalizzazione. Fu celebrato un processo e quattro giovani furono condannati a morte, fucilati a Basovizza e sepolti in un punto ignoto. Gli storici discutono sull’appartenenza politica di questi ragazzi. Per la memoria degli sloveni di Trieste e di tutto il litorale divennero subito i quattro martiri di Basovizza.

Nonostante la storia abbia poi provveduto a offrire molto altro materiale per la memoria – a Trieste e dintorni è successo di tutto: la guerra, l’8 settembre, l’occupazione nazista, la Resistenza italiana e jugoslava, il campo di concentramento di San Sabba, la doppia insurrezione del 1° maggio 1945, l’occupazione dei partigiani jugoslavi, le foibe, gli arresti, le deportazioni, l’arrivo degli Alleati, il Territorio Libero di Trieste – la memoria dei quattro giovani fucilati a Basovizza è rimasta viva (nonostante anche tutta la polemica, venata ancora una volta di razzismo, che si è svolta da noi sul tema foibe) ed è divenuta occasione di celebrazione comune. Di celebrazione della Resistenza, anche se loro furono uccisi prima, a sottolineare il valore di quella loro prima ribellione.

Arrivo a Basovizza accompagnato da un mio amico e collega, lo storico Sandi Volk, a cui devo la scoperta di questa giornata. Anche lui italiano e sloveno al tempo stesso. Lì vicino c’è anche la foiba di Basovizza, monumento nazionale, in merito alla quale la polemica tra gli storici è rovente. Pensavo fosse un motivo di tensione, invece a quanto pare no. Mentre mi avvicino al punto dove sorge il monumento ai quattro incrocio pulmann che riversano decine di persone. Non manca chi diffonde volantini in sloveno. Sandi mi spiega che anche se siamo “in Italia” (le virgolette sono d’obbligo) è una celebrazione molto sentita dagli sloveni, che arrivano a decine, tant’è che tutti gli anni partecipa anche un ministro della Repubblica slovena. Il luogo dove si svolge la commemorazione è un ampio spiazzo, con qualche raro albero e al centro la colonna spezzata con i nomi dei quattro. Dietro, più di recente, è stato posto un monumento composto da quattro cubi di pietra. C’è pieno di gente e, cosa che un po’ mi sorprende, molti giovani. Ci sono gli scout, c’é il coro e l’orchestra di musica floklorica slovena, un palco per gli oratori, due “presentatori”, un uomo e una donna giovani, in pieno stile televisivo, e tre alti pali con le bandiere italiana, slovena ed europea. Ci sono persone in fila per deporre le corone, chi a titolo personale, chi per conto di numerose associazioni. E poi ci sono i portabandiere delle formazioni partigiane, italiane e jugoslave. Arriva anche un gruppo di escursionisti che tutti gli anni raggiunge il luogo a piedi dopo un trekking sul carso. I cappelli a busta con la stella rossa non si contano. Le bandiere della defunta Repubblica federale socialista jugoslava risplendono al sole. Parlano numerosi oratori, tra i quali, per tradizione, un italiano e uno sloveno. C’è un’atmosfera serena e allegra. Tutti sono molto consapevoli e fieri della loro partecipazione.

Sono molto colpito. Da noi, e io vivo in Toscana, una terra “rossa”, a queste celebrazioni puoi incontrare solo i rappresentanti delle istituzioni, dei partiti, dell’associazionismo, e qualche anziano. Sono molto formali. Qui invece c’è tutta un’altra aria. E soprattutto, è una celebrazione europea, Italiani e sloveni insieme. I partigiani italiani con quelli jugoslavi, nonostante tutto. Bisogna arrivare fino a uno dei confini più contesi d’Europa per ritrovare il sapore della dimensione solidale e internazionale della Resistenza.

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