Testo e foto di Pamela Cioni/ Montagne brulle e innevate. Aspre. Marrone e bianco marrone e bianco a perdita d’occhio. L’aereo plana e si vede Kabul. E’ come avvolta in una nuvola di polvere, una coltre grigia che detronizza ogni lampo di luce e colore. Mi dicono essere fumo di stufe a legna e smog. Dall’alto Kabul sembra una città che emerge da un deserto roccioso. Nella nebbia si distigue poi una distesa di case basse e qualche palazzo. Non una metropoli, ecco. Mi aspetto freddo a febbraio. Qui l’inverno il termometro scende tanto sotto lo zero, il fango per la strada si ghiaccia e la notte, quando le stufe a legna si spengono, si rischia di gelare anche a letto.Questo midicono. Invece trovo l’inverno più mite degli ultimi anni. Sembra primavera a Kabul. E di giorno fa quasi caldo. Il colore però, quello, rimane grigio e marrone. Tutto il tempo.
Scesa dall’aereo comincia la corsa in auto per le strade. Strade enormi e caotiche. E inizi a vedere case e palazzi distrutti. Kabul è una città bombardata, una città in guerra. A ricordartelo il rumore di elicotteri bassi, bassi, da “apocalipse now” dice un amico. E poi traffico, ingorghi improvvisi, venditori ambulanti, mendicanti, militari, vigili, operai con delle tutte fosforescenti che interrompono il monocolore. C’era un fiume che passava attraverso la città, adesso è una ferita che la attraversa, è una fossa piena di immondizia. Tutt’intorno montagne e case che si arrampicano verso l’alto e guardano questa città che deve essere bella in qualche stagione. E che deve essere stata bellissima, molte stagioni fa. Cerco le donne per strada. Non ce ne sono tante, ma ci sono. Ci sono studentesse, che camminano in gruppo, con la loro sciarpa in testa e i classici gesti delle amiche, ci sono le signore che camminano vicino alle bancherelle dei vari mercati e ci sono le donne che chiedono l’elemosina. Sono sedute per terra sul marciapiede, ma anche in mezzo al traffico della strada. Queste hanno spesso il burqa blu che abbiamo imparato a riconoscere nei film e nelle foto. Sono all’ultimo posto della scala sociale, probabilmente ripudiate dal marito e dalla famiglia di origine, senza lavoro e senza casa. Ci sono bambini e ragazzini che chiedono soldi, che ti puliscono il vetro, anche se piove, che ti vendono schede telefoniche, incenso e altri profumi. Ci sono, e ne avevo sentito parlare, tantissime palestre per body builder con enormi cartelloni che pubblicizzano muscoli a buon mercato. E poi ci sono fiori a Kabul. A quasi ogni angolo di strada interrompono il grigio dello smog e della polvere e ti catturano lo sguardo. Mi dicono che a maggio il giardino delle rose è un posto bellissimo da vedere. Ma per gli occidentali è praticamente proibito. Pericolo di attentati e rapimenti. Ci sono i palloncini a Kabul e ci sono gli aquiloni. Li vedo in vendita ma non li vedo volare. Anche per loro non è stagione. E comunque non potrei assistere certo a una delle famose gare. Anche questo mi è sicuramente proibito. Pericolo. Sono arrivata Kabul leggendo il libro di un amico scrittore e giornalista (Bruno Casini, viaggio in Afghanistan, ndr) che nel ’75, esattamente 30 anni fa, è arrivato in Afghanistan in 127 passando dalla Turchia e poi su da Kandahar ed Herat prima di arrivare a Kabul per poi ripartire subito, infastidito. Mi fa sorridere e rattristare infatti comparare quello che leggo a quello che vedo. Kabul, nei suoi racconti, è una città dissoluta conquistata dall’occidente, dove si ascolta heavy metal e si consumano droghe. Nel libro si parla di Chicken street, la strada più yeah di Kabul, come della Carnaby street afghana… Oggi è una stradina piena di negozietti che si trova a ridosso degli orrendi compound internazionali. Bunker, città nella città dove i funzionari delle varie ambasciate e dell’unione europea vivono chiusi, blindati e scortati, dove lavorano tutto il giorno alla luce bianca del neon. Faccio fatica a pensare che sia proprio quella la strada dei racconti, Chicken street oggi delimita l’ultima parte della città prima dei check point oltre i quali entrano solo persone in lista, con il passaporto e il benestare di qualche autorità. Chicken street insomma non vende più sesso, droga e rocknroll ma qualche tappeto e argento a turisti fantasma. E mi chiedo come potesse essere prima. Ma non ho tempo, la mia auto riparte e continuo a guardare fuori sperando di poter captare ancora qualcosa, qualche immagine significativa, un brandello di un luogo di un paese che nonostante tutto emana un fascino che viene da lontano. Da una storia millenaria. E che rimpianto, non poter scendere camminare per queste strade, parlare con le persone, anche a gesti, nei bar, sedersi a bere un the. Che peccato essere così riconoscibilmente occidentale da fare paura. Sogno di tornare a Kabul un giorno in cui potrò andare al giardino delle rose, a vedere gli aquiloni, a sedermi a un bar o un ristorante ascoltare rock e farmi raccontare da qualcuno che poco tempo prima Kabul era grigia e un po’ triste.